In passato, le estreme periferie dell’Asia orientale non hanno mai esercitato un interesse peculiare sulla Santa sede e anche la Mongolia non ha rappresentato un’eccezione a questa regola. Tuttavia, la missione apostolica di Papa Francesco, in corso in questi giorni, promette di invertire la rotta per recuperare terreno in un paese dove la presenza della chiesa cattolica è sempre stata piuttosto esigua. Con il suo viaggio nella “terra dell’eterno cielo blu”, il Pontefice spera di infondere nuovo vigore all’impegno cattolico in Asia, iniziando proprio da un’azione di bilanciamento nei confronti del risorgimento buddista in forte ascesa nella steppa mongola.
Quasi settemila chilometri separano il Vaticano da Ulan Bator, la capitale della Mongolia, che Papa Francesco visiterà in questi giorni nel corso della sua missione apostolica in Asia orientale.
La permanenza di Jorge Bergoglio in Mongolia sarà relativamente breve, dal 31 agosto al 4 settembre, mentre la distanza dalla Santa sede è geograficamente rilevante persino nel mondo di oggi, a fronte di un esiguo manipolo di fedeli, circa 1500, presenti nella steppa Mongola. Nel Paese vivono infatti tre milioni di persone e soltanto il 2% della popolazione, professa la religione cristiana, suddivisa fra cattolici, ortodossi e protestanti.
Eppure il Papa ha voluto fortemente intraprendere questo viaggio dall’altra parte del mondo, recandosi per prima volta nella storia nella “terra dell’eterno cielo blu” dopo il viaggio del 1999, programmato e poi annullato, di Giovanni Paolo II.
D’altronde, per la Santa sede le distanze geografiche non hanno mai costituito un ostacolo insormontabile alla diffusione del vangelo come ben dimostrano le lunghissime traversate compiute dai padri missionari prima nelle Americhe e poi anche in Oceania a partire dal XVI secolo. E anche la visita apostolica di questi giorni in Mongolia può essere compresa soltanto se posta in relazione con la categoria ecclesiale della missionarietà e con il tentativo della Santa sede di infondere nuovo vigore all’impegno cattolico nelle periferie dell’Asia, tradizionalmente legate al Buddismo e all’egemonia politica ed economica dei suoi due grandi vicini, Russia e Cina.
Il Papa nella steppa
I rapporti tra Mongolia e cristianesimo sono molto antichi: il nestorianesimo raggiunse la Cina fin dal VI o VII secolo e comunità nestoriane furono incontrate anche da Marco Polo nel suo viaggio. Nel XIII secolo, la regione divenne meta di alcuni religiosi francescani che diffusero il messaggio cristiano in quelle terre inospitali e anche di diversi legati della Santa sede che si recarono in visita presso i Khan della steppa per trattare la pace e scongiurare le incursioni delle temibili orde mongole in Europa.
Nel corso della sua visita, Francesco ha ricordato questi eventi, facendo riferimento al viaggio intrapreso da Fra’ Giovanni di Pian del Carpine, inviato papale, che tra l’agosto e il settembre 1246 visitò Guyug, il terzo imperatore mongolo, e presentò al Gran Khan la lettera ufficiale di Papa Innocenzo IV.
Nel corso dei secoli i rapporti tra il Vaticano e la Mongolia sono diventati sempre più sporadici. L’ultimo contatto ufficiale risale a trent’anni fa con la firma di una lettera per rafforzare i rapporti bilaterali con la Santa sede. Oggi, in Mongolia risiede un solo vescovo e il paese si trova ad affrontare sfide piuttosto complesse: diffusa violenza domestica, alti tassi di disoccupazione, urbanizzazione, inquinamento galoppante e la piaga dell’alcolismo.
A tutto questo la Chiesa prova già a rispondere con la sua piccola presenza che ha visto giungere grazie al papa anche un cardinale, il missionario italiano Giorgio Marengo, il prelato più giovane tra quelli che attualmente siedono nel Sacro Collegio, prefetto apostolico di Ulan Bator.
Nel 2021, con la creazione della Conferenza Episcopale dell’Asia Centrale, che annovera fra i suoi membri stati popolosi come il Kazakistan e l’Uzbekistan, la Santa sede ha deciso di rafforzare ulteriormente la sua presenza nella regione dell’Asia orientale, avvicinandosi progressivamente alla Mongolia, e provando a superare il pregiudizio che la vorrebbe come un territorio inospitale e estraneo all’influenza della Chiesa di Roma.
Papa Francesco sulla scia del Dalai Lama
Nel tentativo di avvicinarsi il più possibile alla popolazione locale, in Mongolia, la Santa sede dovrà cercare innanzitutto di bilanciare la forte ascesa del buddismo tibetano, cimentandosi in una sfida piuttosto complicata.
Come stato satellite dell’Unione Sovietica, la Mongolia ha per decenni abbandonato qualsiasi forma di culto – almeno ufficialmente – portando una parte sostanziale degli abitanti a dichiararsi tutt’oggi atea. Tuttavia, il risorgimento culturale degli anni ‘90 ha portato la maggior parte della gente ad abbracciare il buddismo.
Sul piano gerarchico, la figura buddista più importante in Mongolia è il Jebtsundamba Khutuktu (o Jetsün Dampa Rinpoche), che oltre a godere di grande autorità spirituale fra i fedeli, occupa anche un ruolo di primo piano nella culturale del paese.
Tuttavia, quando si parla di buddismo tibetano e del Dalai Lama, ad entrare in gioco è il grande e invadente vicino della Mongolia, la Cina. Pechino ha tutt’oggi un conto in sospeso con l’attuale capo del governo tibetano in esilio in India, dopo che nel 1959 ha occupato il Tibet e ha tentato di cancellarne le radici religiose e buddhiste. Nel 2016, la Cina non prese benissimo la visita del Dalai Lama in Mongolia e le cose andarono anche peggio quando questi decise di dichiarare la decima reincarnazione del Jebsundamba, capo spirituale del buddismo in Mongolia, da Dharmshala, sede del governo tibetano in esilio, impedendo a Pechino di pilotare la nomina.
Ora, è proprio in questo scontro diplomatico e religioso tra il Dalai Lama e la Repubblica popolare cinese, che s’inserisce la Santa sede. La Cina, infatti, non è solo in competizione con le scelte del XIV Dalai Lama sulla nomina del capo spirituale del buddismo in Mongolia, ma ha un contenzioso aperto anche con il Vaticano per quanto riguarda la difficile gestione dell’accordo provvisorio sulla nomina dei vescovi e della loro duplice fedeltà, al papa quali vescovi cattolici e a Pechino quali vescovi e cittadini cinesi. Perciò, Papa Francesco ha tutto l’interesse a mantenere buoni rapporti con Pechino mentre cerca di bilanciare l’ascesa del buddismo tibetano in Mongolia.
Il cosiddetto “Governo tibetano in esilio” guidato dal Dala Lama non è attualmente riconosciuto da alcun paese, anche se come associazione no-profit continua a ricevere finanziamenti anche da soggetti pubblici, come ad esempio il governo statunitense. Nel corso degli anni, la Santa sede ha mantenuto differenti approcci nei confronti del Governo guidato dal Dalai Lama a seconda dei pontefici. Nel 2006, Benedetto XVI decise di incontrare nel corso di un’udienza in Vaticano la guida suprema del Tibet in esilio in India. Bergoglio, invece, ad un anno dalla sua elezione al soglio pontificio negherà l’udienza al Dalai Lama per timore di incrinare i buoni rapporti con la Cina.
Il senso della visita di Bergoglio e il richiamo alla “Pax mongolica”
Grande tre volte la Francia, la Mongolia ospita solo tre milioni di abitanti, e non ha alcuno sbocco sul mare, incastonata com’è tra la Cina e la Russia. Per Settant’anni, il Paese ha fatto parte dell’Unione Sovietica e ancora oggi la federazione russa resta un partner difficilmente sostituibile per Ulan Bator dal momento che provvede a soddisfare la quasi totalità della sua domanda energetica.
Sull’altro versante, c’è la Cina che vanta secoli di storia indissolubilmente intrecciata a quella mongola e che oltre ad acquistare circa il 90% del principale prodotto di export, ovvero le risorse minerarie, ha inserito la Mongolia nell’enorme piano infrastrutturale delle Nuove Vie della Seta, progetto cinese che combina lo sviluppo economico all’influenza politica.
Tuttavia, alla terra dell’eterno cielo blu, non bastano soltanto gli investimenti della Cina e il gas della Russia, per sentirsi pienamente realizzata nella sua dimensione nazionale. Infatti, anche se stretta nella morsa di due vicini facilmente irritabili e autoritari, quali sono il Dragone cinese e l’orso russo, la Mongolia ha bisogno del mondo, incluso l’Occidente. E la missione apostolica di Papa Francesco in corso in queste ore sembrerebbe puntare proprio su questo aspetto decisivo, di apertura al mondo.
Oggi, Ulan Bator è un interlocutore non propriamente allineato: né con l’Occidente, al quale resta comunque prossimo grazie alla vicinanza con il Giappone, né con Mosca, da cui dipende per gli approvvigionamenti energetici, e né tantomeno con la Cina che ha provato a trarla a sé con investimenti e esportazioni.
In un momento storico in cui al centro dell’informazione c’è sempre la guerra e i media non fanno altro che discutere dei punti deboli dell’Occidente e dell’assenza di diplomazia del mondo libero e democratico di fronte alle autocrazie, Bergoglio ha scelto di andare in Oriente perché ha visto nella Mongolia una nazione desiderosa di aprirsi al mondo e un interlocutore fruttuoso con il quale inaugurare un rinnovato dialogo che sappia valorizzare le pragmatiche relazioni tra autorità religiose e governi.
In un di gioco in cui politica, religione, e guerra per le risorse si intrecciano ormai in un nodo indistricabile, il viaggio di Bergoglio in Mongolia è forse la rappresentazione più autentica della portata realmente universale della diplomazia della fratellanza, come ha affermato lo stesso pontefice da Ulan Bator: “Voglia il Cielo che sulla Terra, devastata da troppi conflitti, si ricreino anche oggi, nel rispetto delle leggi internazionali, le condizioni di quella che un tempo fu la ‘pax mongolica’, cioè l’assenza di conflitti”.
Tommaso Di Caprio