Le nuove testimonianze riportate da Amnesty International parlano di famiglie spezzate, orfanotrofi e centri di rieducazione. Seconda guerra mondiale? No, si tratta della situazione nella regione cinese dello Xinjiang
Non è certo facile immaginare una realtà in cui raggiungere i propri bambini significa rischiare la propria incolumità, talvolta anche la vita. In realtà basta leggere il nuovo rapporto di Amnesty International per capire che la minoranza uigura in Cina vive quello che altrimenti considereremmo incredibile al giorno d’oggi.
Una persecuzione ormai datata
La situazione degli uiguri è la stessa del 2017, più o meno il periodo in cui nella regione dello Xinjiang è iniziata la repressione nei confronti della minoranza musulmana. Repressione che si traduce ancora oggi in centri di detenzione e di lavoro forzato, luoghi di continui episodi di maltrattamenti e torture. E non ci si limita alla violenza fisica: scopo del campo è l’annientamento dell’identità culturale uigura. In un’intervista per la National Republic Radio si parla di 126 “bugie sulla religione” che i detenuti sono costretti a sapere a memoria:
La religione è oppio, la religione è cattiva, non devi credere in nessuna religione, devi credere nel Partito Comunista
Nonostante numerosi giornalisti e ricercatori identifichino il fenomeno come un vero e proprio genocidio, una dichiarazione congiunta di 54 Paesi, tra cui la Corea del Nord, ha espresso un’opinione positiva riguardo la politica attuata nella regione. C’è chi infatti vede nella pulizia etnica attuata dal governo una motivata azione anti-terrorista.
Le ultime testimonianze della minoranza uigura
A riportare l’attuale situazione dello Xinjiang sono sei famiglie uigure attualmente residenti in Australia, Canada, Italia, Paesi Bassi e Turchia. Il ricercatore Alkan Akad ha spiegato che difficilmente le famiglie uigure accettano di rivelare la realtà dei campi di lavoro, dove ad ora sono state costrette circa un milione e mezzo di persone.
Una coppia di genitori racconta di essere fuggita dalla regione a seguito di pressioni per cedere i passaporti, lasciando i quattro bambini ai nonni. Tre di loro sono stati però costretti a separarsi dalla famiglia, divisi tra un ‘campo orfani’ e un collegio. Per i genitori è impossibile raggiungere i figli, in quanto rischierebbero la reclusione nei centri di rieducazione.
D’altra parte ai minori non è concesso partire, le famiglie vivono così nell’impossibilità di ricongiungersi.
Amnesty riporta anche la storia di quattro ragazzi, con età compresa tra i 12 e i 16 anni, costretti a recarsi da soli presso l’ambasciata italiana a Shangai nel tentativo di raggiungere i genitori. Subito dopo, però, sono stati fermati dalla polizia e costretti a tornare nell’orfanotrofio.
Omer e Meryem Faruh, invece, non hanno notizie delle loro due bambine da più di 1600 giorni:
Mia moglie ed io piangiamo solo di notte cercando di nascondere il nostro dolore alle altre nostre figlie qui con noi.
Il boomerang di sanzioni tra UE e Cina
Lo scorso 17 Marzo l’Unione Europea ha deciso di sanzionare dei funzionari coinvolti nella violazione dei diritti umani nei confronti degli uiguri, e la Cina, come promesso, non si è fatta attendere nella risposta. Dopo nemmeno una settimana è infatti giunto l’annuncio di una sanzione per dieci politici e accademici dell’Unione e quattro entità della stessa con l’accusa di “disinformazione”.
È forse questo il rischio più grande, l’obiettivo più infimo che la persecuzione contro la minoranza uigura possa raggiungere: il silenzio. Fermare l’informazione e ridurla a una bugia, abbassare la voce di giornalisti e testimoni sino a ridurla a un sussurro. Invece la voce di chi come Omer e Meryem riesce a vincere la paura della persecuzione pur di raccontare la verità, quella deve alzarsi a un grido.
“Meditate che questo è stato”, scriveva Primo Levi.
In Cina, nello Xinjiang, questo è.
Katherina Ricchi