Not All Men: Un’analisi della mascolinità tossica nell’ambiente digitale

Negli alveoli della cultura digitale, l'idea di mascolinità ha subito cambiamenti piuttosto radicati, senza mai però contestare il sistema in cui si trova.

Nell’ambiente digitale, i dibattiti su argomenti di discriminazione sistemica stanno prendendo sempre più piede. Questioni come quella di genere trovano nei social media un campo fervido di discussione e controversia, aprendo le porte alle opinioni di chiunque desideri prenderne parte. Ma dove i movimenti di natura femminista trovano branche ideologiche variegate e piuttosto stabili ed affermate, il mondo della mascolinità tossica nell’ambiente digitale, la cosiddetta Manosphere, rimane pcoo esplorata nel discorso pubblico, così come l’onnipresente critica mossa a determinati slogan o affermazioni di stampo femminista, quella del Not All Men, la quale non ha origine da un’ideologia condivisa e manifesta. Come nasce allora? E quali sono i cambi che la rappresentazione della mascolinità ha avuto negli anni della digitalizzazione?

Not all men: Un’analisi della mascolinità tossica nell’ambiente digitale – Not all men. Non tutti gli uomini. La frase, formulata in maniere differenti ma ormai divenuta una costante della contestazione dei movimenti di ideologia femminista, è ormai entrata nel centro del dibattito sulle tematiche di educazione e di rivalutazione del macrosistema definito come “patriarcale”.

La frase, in sé, è affascinante. Non ha un’origine ben definita, né è uno slogan di uno dei Male Rights Movements o più generalmente appartenente all’insieme eterogeneo di siti, blog e pagine social denominati come la Manosphere, essendone anzi sotto molti aspetti una diretta contraddizione: affermare che determinate argomentazioni siano veritiere ma solo quando rivolte a un certo pubblico (di cui il commentatore non si ritiene parte) entra infatti in conflitto con numerose ideologie appartenenti ai sedicenti movimenti di rivendicazione dei diritti maschili.

Come mai allora questa frase è così presente e pervasiva nell’ambiente digitale? Le ragioni sono molte, ma richiedono di essere approfondite, così come i cambiamenti sottili ma importanti che la rappresentazione della mascolinità sta subendo nell’era contemporanea.

La Manosphere, dove la mascolinità tossica nell’ambiente digitale prolifera, fra pseudoscienza e misoginia esplicita

Comprendere il fenomeno della mascolinità tossica nell’ambiente digitale richiede una buona comprensione del vocabolario e degli ambienti in cui essa prolifera, primo fra tutti quello di Manosphere: la Manosphere è un insieme eterogeneo di luoghi di conversazione nell’ambiente digitale dove viene privilegiata una visione tradizionale e conservatrice relativamente al ruolo rigidamente suddiviso delle figure maschili e femminili all’interno del tessuto sociale.

La cultura della Manosphere appartiene prevalentemente a ideologie di stampo reazionario di destra, favorendo un ritorno a standard di divisione del ruolo di genere. La figura patriarcale dell’uomo come addetta al lavoro e a provvedere alla famiglia (rigorosamente eteronormativa) è percepita negli standard della forza fisica, del successo, e soprattutto, in maniera molto letterale, del testosterone e delle prassi di costante competizione e dominazione, sia sui propri compagni, sia sulla donna, adottando numerose teorie pseudoscientifiche di discutibile provenienza al fine di accreditare la propria visione del mondo.

Il testosterone è infatti un elemento cardinale nella manosphere. dove circola da anni l’idea che le nuove politiche della contemporaneità verso una maggiore inclusione e rappresentazione della diversità (la cosiddetta Woke Culture) abbiano portato a una “femminilizzazione” dell’uomo attraverso, fra le altre cose, il consumo di prodotti a base di soia, capace secondo alcune teorie complottiste di aumentare la produzione di estrogeni (l’uomo debole viene infatti definito un soyboy). Non è raro trovare nei siti o nei canali youtube dedicati al target frequentante la manosphere la sponsorizzazione di prodotti parafarmaceutici per l’aumento della virilità, fra cui ogni varietà di pillole e integratori, ma anche la promozione di diete a base di sola carne rossa (o cruda), o di abbronzature ai testicoli, il tutto per rendere il cliente/utente più vicino all’idea di “vero uomo”.

Alle pratiche di pseudoscienza si associano spesso teorie di psicologia e sociologia di dubbio valore, la più famosa quella del “maschio Alfa”, che sarà osservata nel dettaglio più avanti. Altre prevedono interpretazioni piuttosto libere del linguaggio corporeo, di cui è esempio lampante la teoria della green line, nata su Twitter ed entrata in seguito in circolazione su TikTok, secondo cui è possibile determinare chi all’interno di una coppia detiene il potere rispetto a chi è invece sottomesso basandosi sul posizionamento dell’individuo nelle fotografie.

https://twitter.com/screwmatrix/status/1638565195097284610

La teoria del maschio dominante viene inoltre rappresentata in un’ottica di eterna competizione e manifestazione di forza fisica in nessun modo avvicinabili a qualità tradizionalmente associate al ruolo della figura femminile. Andrew Tate, uno dei più famosi e controversi rappresentanti della Manosphere, arrestato lo scorso anno in Romania con accuse di tratta di esseri umani e violenza sessuale, si rivolge infatti spesso al pubblico dei suoi follower su X (ex-Twitter) rappresentando sé stesso come Role Model della mascolinità, e deridendo quegli uomini che, ad esempio, cucinano.

La scelta della misoginia in un sistema patriarcale riconosciuto come ingiusto. Uno sguardo alla sottocultura Incel

La mascolinità tossica nell’ambiente digitale descritta nella sezione precedente incarna aspetti di virilità pervasiva tristemente noti nella nostra società: trattasi infatti una visione fortemente tradizionalista dove allo strapotere e al bagaglio di responsabilità dell’uomo è obbligatoriamente affiancata la subalternità della donna. Il solito maschilismo, insomma, seppur estremizzato in maniera iperbolica e quasi parodica di sé. Ma la manosphere presenta numerose sfaccettature dell’identità maschile nel panorama contemporaneo.



Una delle sottobranche più note della manosphere è quella degli Incel (Involuntary Celibate, involontariamente celibi). Il movimento pone al cardine della propria visione del mondo e della società una prospettiva dichiaratamente misogina: secondo l’ideologia Incel le donne adempiono alla funzione unica dell’accoppiamento e della riproduzione, e la scelta del partner dalle stesse sarebbe stabilita attraverso una rigorosa scala di valori a cui la figura maschile deve attenersi – attrattività, potere sociale ed economico, carisma, etc. Ma ciò che caratterizza i sedicenti incel è il vivere l’ideologia dalla prospettiva di chi non è capace di rispettare tali valori. Si tratta di uomini che si considerano inadatti e incapaci di procurarsi un partner, a causa del loro sentirsi poco attraenti o persino geneticamente inferiori.

Si tratta di una visione che ripropone dunque gli stessi parametri di valore maschilisti più tipicamente patriarcali, in cui l’uomo ha il diritto, ma soprattutto il dovere di esercitare potere sulla donna. Eppure, è affascinante considerare proprio il fattore per cui gli incel vivono il sistema, da loro ritenuto parte imprescindibile della natura umana, con angoscia. Essi non si reputano infatti parte dello standard di mascolinità predicato, diventando vittime di una piramide sociale da loro costruita per giustificare la situazione di, appunto, celibato involontario.

Tratti di mentalità complottistica accompagnano il movimento incel, e più in generale l’ambiente della manosphere: i termini più diffusi sono infatti quelli di Red Pill Blue Pill (nell’ambiente digitale italiano, declinati in “redpillato” e “blupillato”) tratti dal film di successo del 2001 Matrix e riappropriati dalla comunità per indicare la non-appartenenza o meno al movimento: come nel film, infatti, chi “prende la pillola rossa” accetta, per così dire, la “dura realtà” proposta dall’ideologia incel: la natura umana e la società sono un brutale gioco di potere, sancito da parametri biologici rigidi e ben delineati, in cui la competizione sessuale è alla base della validazione individuale, e in cui alla figura di donna sono rimossi numerosi attributi umani (una parola circolante nelle comunità incel più estreme per indicare la donna è femoid, largamente traducibile in “femminoide”) dove chi invece accetta la “pillola blu” continua a credere nell’illusione di una possibilità di giustizia sociale.

Più inquietante è l’invenzione di una “terza pillola”, la Blackpillossia l’accettazione di una condizione di inferiorità e di inadeguatezza da parte del membro della comunità Incel da cui non esiste possibilità di uscita. Sentimenti del genere causano ovviamente risentimento, rabbia, e spesso tendenze a comportamenti dannosi verso sé e gli altri. Non a caso, vari autori di omicidi di massa negli USA sono stati ricondotti, in un modo o nell’altro, al movimento Incel.

Ma la cultura Incel è sfuggita al suo ambiente originario della manosphere, diventando parte piuttosto significativa del panorama digitale più esteso:

Mascolinità tossica nell'ambiente digitale, GigaChad
il “GigaChad”, fotografia di Ernest Khalimov usata ormai in maniera diffusa come meme per rappresentare il vincitore di un dibattito fra due persone.

il termine Chad, ad

esempio, che ora viene largamente utilizzato dalla massa per indicare la figura vincitrice di un dibattito, o comunque prestante e di successo (contrapposta al prima citato soyboy, o al Virgin, quindi all’uomo “fallito” per via della sua mancanza di prestazione sessuale) ha infatti origine all’interno dell’ambiente incel (Chad è infatti stato adottato dalla comunità Incel come il nome stereotipico del giocatore di football nei licei statunitensi: attraente, carismatico, desiderato).

Si tenga a mente che la Manosphere resta una sottocultura piuttosto localizzata a un numero di individui ormai radicalizzati, ma limitati in numero e risorse. Ciò nonostante, un’analisi di essa palesa una serie di schemi piuttosto interessanti, e che permettono di trarre una di trarre paragoni sul funzionamento sociale di atteggiamenti di mascolinità tossica all’interno di gruppi di soli uomini, in primis quello di molti perdenti e pochi vincitori: l’uomo forte, detentore del potere e della felicità ad esso associata, presiede a una piramide di uomini incapaci di eguagliarlo e di raggiungere lo standard imposto, ma desiderosi della sua validazione e, soprattutto, del suo ruolo.

Maschi Alfa, maschi Beta, maschi Sigma. L’oroscopo maschile della mascolinità tossica nell’ambiente digitale esterno alla Manosphere

Se precedentemente si è discusso di ideologie esplicitamente reazionarie rispetto alla cultura di massa contemporanea, l’ecosistema dei social media permette di affrontare branche di mascolinità più sottili e non direttamente oppositive a movimenti più progressisti di quelli presenti nella Manosphere. La definizione di “ideologia” diventa qua ben più sfocata, toccando elementi subliminali e allusivi, i quali però permettono di arrivare al fulcro della questione, ossia al motivo sottostante al “Not All Men”.

Il mondo dei social è infatti orizzontale, almeno in apparenza: la differenza sostanziale che intercorre fra il VIP televisivo e l’influencer consiste nella maggior “umanità” attribuita alla seconda figura: così, anche l’interazione fra utenti, ora riconosciuti come simili, permette alla massa di riconoscere con maggiore immediatezza anche i tratti di diseguaglianza sociale. Ma nel caso della mascolinità e delle problematiche legate alla sessualità, come si è presentato precedentemente, la tendenza sembra essere quella di riformulare lo spazio culturale senza porne le fondamenta in discussione.

Esempio lampante di ciò è il mito del “maschio Alfa”: originatasi da una teoria sociobiologica sul comportamento sociale interno al branco di lupi, ormai del tutto screditata da oltre un ventennio, la metafora dell’Alpha Male è ormai divenuta emblematica della mascolinità tossica nell’ambiente digitale. La prospettiva resta sostanzialmente invariata rispetto alla precedente rappresentazione del rapporto fra individui di genere maschile: secondo la teoria il maschio Alfa, per via di caratteristiche biologiche e individuali, si porrebbe attraverso la competizione con i pari come capo del branco, avvalendosi così di privilegi quali diritto decisionale ed esecutivo e la possibilità di accoppiarsi con molteplici partner sessuali.  La restante popolazione maschile sarebbe dunque relegata a uno stato di sudditanza, venendo definita come “Beta”, dunque carente delle qualità del maschio Alfa e sottostante al suo arbitrio, ma desiderosa di possederle e di competere quanto prima possibile per poter godere dei prima citati privilegi. Il parallelo fra la teoria del maschio Alfa e la cultura della mascolinità tossica umana è molto comoda per via della coincidenza che permette di trarre fra i due elementi, ed è ormai pienamente integrata nel discorso contemporaneo.

Ma il mondo digitale, come si è detto, è orizzontale, e ciò ha favorito da parte di un grande numero di persone di riconoscere sistemi come questo precedentemente proposto (il quale, si pensi, funziona anche in maniera ottimale come riassunto della mentalità capitalista) come sostanzialmente ingiusti: le persone non identificanti con il tipo di standard imposti hanno ottenuto la capacità di relazionarsi le une con le altre, e nel farlo, l’idea dell’appartenere al gruppo dei, per così dire, perdenti nel gioco della vita, è stata rifiutata.

Nasce così infatti la figura del “maschio sigma“, ossia di un nuovo tipo di categorizzazione di identità maschile che, pur utilizzando la stessa retorica di un sistema sociale patriarcale, pone le fondamenta per un nuovo tipo di identificazione individuale, e con esso tutta un’altra serie di lettere dell’alfabeto greco, le quali però hanno avuto una scarsa diffusione a livello culturale. E’ piuttosto difficile identificare con precisione cosa sia nell’effettivo un “maschio sigma”, non essendo un termine riconducibile a un autore specifico o a un movimento ben delineato nei suoi tratti, ma il suo ruolo nel mondo della mascolinità è quello di ritrovare un’identità e un’affermazione della propria virilità pur restando estraneo alle dinamiche prima imposte: sono persone caratterizzate dall’introversione e dalla volontà di rimanere esterni ai giochi di potere. I “sigma” si autodefiniscono, utilizzando un’altra volta la metafora del branco, come “lupi solitari”.

Ma la ricontestualizzazione del sistema patriarcale apre una significativa e piuttosto evidente falla in un simile sistema gerarchico. dove lo standard di mascolinità tradizionale, quello appunto incarnato dal “maschio Alfa” appare irraggiungibile, e nessuno (o quasi) desidera identificarsi nella categoria del “Beta”, ossia del perdente al gioco della vita, la tendenza è logicamente quella di attribuirsi tratti positivi per puro istinto di autoconservazione. Insomma, nell’ambiente digitale, gli introversi proliferano, e con essi, la mentalità del “maschio sigma”,

Mascolinità mediatica e mediata: da Maciste a Schwarzenegger fino a Joker e Patrick Bateman

I casi finora citati possono apparire come estremi. È altrettanto improbabile che in una conversazione si possa aver sentito dire dall’interlocutore di essere un maschio sigma. È però molto più probabile che l’utente medio dei social media abbia avuto a che fare, durante le sue navigazioni, con pagine di mindset, o di video raffiguranti le “nuove icone” della mascolinità contemporanea, quei personaggi dei media del giorno d’oggi che, estrapolati dal commento autoriale insito nell’opera da cui provengono, sono diventati parte dello zeitgeist come incarnazione dello spirito dei tempi e dei sentimenti di repressione nel mondo maschile: il Joker recitato da Joaquim Phoenix nell’omonimo film del 2019, Travis Bickle, interpretato da Robert De Niro in Taxi Driver, e primo fra tutti Patrick Bateman, iconico protagonista di American Psycho (1998).

Si tratta di un’adozione di figure di riferimento mediatiche particolarmente interessante se consideriamo gli standard iconografici di mascolinità stereotipica del secolo scorso. Anche se delineare con precisione uno standard di bellezza maschile non risulta semplice quanto si possa

Locandina del film di “Maciste il guerriero”, recitato da Bartolomeo Pagani. Si noti che, come nel Kolossal Cabiria, al forte Maciste è sempre associato un altro personaggio maschile più vicino all’iconografia del “leader”

immaginare, si può pensare a due linee principali di rappresentazione: lo Strongman, incarnato in Italia nel periodo pre-fascista dal Maciste (recitato da Bartolomeo Pagani nel Kolossal Cabiria del 1914 e simile in fisionomia allo standard poi proposto da Benito Mussolini), la rappresentazione di una mascolinità burbera e stoica, e quella più complessa del leader (per fare un esempio usando sempre Cabiria, l’attore Luigi Chellini nei panni di Scipione) più snello e agile, ma scaltro e arguto. Entrambe icone di accentramento del potere e del suo esercizio in nome di un ideale, ma nondimeno sempre propense all’uso della violenza come sistema di risoluzione del conflitto.

Due ideali di ambizione per l’uomo medio che sono andati più volte scontrandosi, fondendosi e arrivando agli estremi nella power fantasy degli anni ’80, dove la figura dello Strongman diventa onnipresente nella cinematografia del periodo: a dominare l’ultimo ventennio del ‘900 sono gli uomini fattisi da soli, capaci di ergersi (attraverso un uso esteso e incondizionato della violenza) contro il panorama storico di ingiustizia e segreti, fedeli a propri ideali e dalla ferrea determinazione: sono il Rambo di Sylevster Stallone, il Conan di Arnold Schwarzenegger, i vari personaggi interpretati da Jean Claude Van Damme e Bruce Lee.

Linee di tendenza piuttosto stabili, rappresentative di come un uomo “dovrebbe essere”. Forte, saldo, carismatico, contenuto, capace di ergersi al di sopra della pressione sociale e di dominarla. Ma si tratta di linee a cui nel ventunesimo secolo se ne affranca un’altra, quella del represso: la narrativa cinematografica contemporanea adotta infatti spesso una prospettiva dal basso, dove il protagonista, largamente definibile come anti-eroe, vive e subisce gli effetti di un mondo riconosciuto come ingiusto e crudele, o falso e richiedente da parte sua l’adozione di una maschera che reprima la sua vera indole, tramutando spesso la sua frustrazione in un ultimo, efferato, atto di violenza. Questi sono i nuovi esempi di mascolinità, quella più rappresentativa di un gruppo larghissimo di persone che, consciamente o meno, riconoscono l”esistenza di un sistema patriarcale-capitalista, e reprimono un istinto all’aggressione e alla dominazione percepito come naturale.

Non è un caso allora che le icone del Sigma male e di un nuovo tipo di mascolinità tossica nell’ambiente digitale siano proprio i Joker e i Patrick Bateman della contemporaneità, utilizzati dalle communities per esaltare proprio la non-appartenenza, la scelta volontaria di non essere violenti o oggettificanti nei confronti del genere femminile, tenendo però sempre a mente che potrebbero farlo in qualunque momento, e che la miccia che porta all’esplosione di una bomba è nascosta e breve.

Mascolinità tossica nell’ambiente digitale, alle radici del Not All Men

In seguito alle precedenti considerazioni, è possibile trarre la seguente conclusione: la società patriarcale è avvertita da una fetta di popolazione maschile abitante l’ambiente digitale come un giogo oppressivo. Ne vengono riconosciuti gli effetti dannosi sul genere femminile e, si ritiene importante ripeterlo, su di sé, in quanto inadeguati rispetto allo schema rigido e preciso che essa impone su ciò che un uomo dovrebbe ambire a diventare.

La reazione allora conseguente agli slogan della contemporaneità del mondo femminista, i quali incitano a una rivoluzione sistemica che richiede da parte di ogni individuo una considerazione sui privilegi del genere maschile e sui comportamenti di gruppo accettati in maniera più o meno attiva dagli stessi, è però quella negativa, spingendo a rispondere con un’esclusione del singolo individuo da comportamenti di un gruppo di cui non solo non si sente parte, ma nemmeno beneficiario.

Si consideri cosa implica un’affermazione quale Not All Men: in primo luogo, riconosce che sì, esiste un problema legato alla società patriarcale, non tutti gli uomini, ma qualcuno (magari anche la maggior parte) ripropone atteggiamenti maschilisti e misogini. In secondo luogo, esclude l’interlocutore dal problema: egli non si riconosce nella parte di popolazione problematica. Terzo, accusa implicitamente l’ideologia femminista di stare rivolgendo l’indice a chi “non se lo merita”, in quanto non uno degli, per usare i termini dell’ambiente digitale, “Alfa”, non un vincitore, identificato come immagine standard della mascolinità e dunque della sua tossicità, ma uno dei tanti appartenenti alla vasta massa di uomini frustrati dalle maglie i un sistema di pochi vincitori e molti perdenti. Infine, una sfumatura della frase è che non tutti gli uomini sono colpevoli di alimentare una mentalità maschilista, ma potrebbero, e a separare il gruppo degli innocenti da quello dei carnefici esiste solo una labile linea di volontà repressa.

Dietro agli slogan, la liberazione per tutti da un giogo che si fa sempre più oppressivo e instabile.

Nel fervore dell’attuale dialogo sui diritti delle donne e sulla parità di genere, un aspetto che emerge con prepotenza è la critica nei confronti della mascolinità tossica, una problematica che, scrutata attraverso la lente del femminismo, svela i suoi effetti deleteri tanto sugli uomini quanto sulle donne. La complessità di questo tema coinvolge non solo la lotta contro il patriarcato, ma anche la necessità di ridefinire le aspettative sociali imposte agli uomini, spesso nocive e limitanti.

La mascolinità tossica, un concetto che descrive un modello di comportamento maschile focalizzato su aggressività, mancanza di empatia, competitività sfrenata e repressione delle emozioni, trova le sue radici in una cultura che glorifica questi tratti e li tramanda di generazione in generazione. Questi atteggiamenti influenzano negativamente sia gli uomini, ostacolando una sana gestione delle emozioni e alimentando comportamenti autodistruttivi e violenze, sia le donne, che subiscono discriminazioni e violenze in un sistema che perpetua uno squilibrio di potere tra i generi.

La diffusione dello slogan “Not All Men” rivela il rifiuto di riconoscere la problematica della violenza maschile come una realtà diffusa. Questo atteggiamento non solo sminuisce il problema, ma impedisce anche un’efficace comprensione delle dinamiche di genere. La persistenza nell’utilizzo di questa frase riflette quindi un divario di genere non solo evidente, ma drammatico.

Mentre il femminismo da tempo ormai insegna e chiede al genere maschile di responsabilizzarsi su una questione di carattere collettivo, gli uomini, o almeno “alcuni” di essi, sembrano invece sentirsi attaccati, reagendo con generalizzazioni vuote che tendono a spostare il focus dell’attenzione altrove, cioè da un piano collettivo a uno individuale e personale “Ma io non sono così!”. Sembra infatti oggi impossibile discutere di temi simili con gli uomini senza che emerga una certa necessità da parte loro di autoassolversi da colpe e responsabilità, un atteggiamento che li rende indirettamente complici del sistema di violenza della nostra società e che non fa altro che far sentire le vittime più sole e incomprese che mai.

In questo senso, l’utilizzo reiterato della frase “not all men” quando si parla di violenza di genere non fa altro che complicare il dibattito su questi temi, creando dei corti circuiti che molto spesso ne limitano il progresso e la diffusione. Perché se è vero che “non tutti gli uomini” uccidono, stuprano o picchiano le donne, è anche vero che “tutte le donne” hanno subito, direttamente o indirettamente, abusi o molestie di qualche tipo.  Pertanto, sottolineare la propria estraneità nei confronti della violenza sulle donne e del patriarcato e allo stesso tempo qualificarsi come un’eccezione nella vasta gamma di “uomini violenti” non è, di fatto, di nessun aiuto nella lotta ai comportamenti tossici e dominanti tipicamente maschili.

Per contrastare efficacemente la disuguaglianza e la violenza di genere, è essenziale che gli uomini accettino il loro ruolo nella società e nel processo di cambiamento necessario. Ciò richiede una maggiore apertura all’ascolto e comprensione delle realtà femminili, riconoscendo così i privilegi impliciti dell’essere uomini ed evitando di sminuire o negare l’esistenza di un problema sociale diffuso. Un nuovo approccio educativo basato sull’empatia e sul rispetto reciproco, allontanandosi dai ruoli di genere tradizionali eteronormativi, può essere determinante nel superare schemi obsoleti e promuovere l’uguaglianza.

Il femminismo contemporaneo, concentrandosi su un contesto di genere più ampio, riconosce che la liberazione delle donne implica anche la sfida alle norme di genere dannose per gli uomini. Questa prospettiva ampliata non solo mira a smantellare il patriarcato, ma promuove anche un modello di mascolinità più sano ed equo, benefico per tutti i generi.

La lotta contro la mascolinità tossica e la repressione è fondamentale per il progresso verso una società più equa e inclusiva. È necessario un impegno collettivo e una profonda riflessione culturale per costruire un futuro in cui tutti gli individui possano vivere liberamente, senza il peso di aspettative di genere oppressive e dannose. Gli uomini devono riconoscere la loro parte in questo processo, andando oltre la retorica difensiva di “not all men” e impegnandosi attivamente nella costruzione di un mondo dove la disuguaglianza di genere sia un ricordo del passato.

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