Giacomo Leopardi è un poeta di cui si ricorda il pessimismo, la salute cagionevole, soprattutto l’immagine della sfortuna fisica che non gli permise di vivere una normale gioventù, rinchiudendosi nella libreria paterna a leggere un libro al giorno. Una libreria dotata di oltre ventimila testi, di cui lesse oltre la metà.
Ancora bambino impara il latino con un precettore, per studiare da solo greco ed ebraico. Prosegue con francese, inglese, spagnolo e tedesco.
Uno studio da lui stesso definito matto e disperatissimo, che lo portò a comporre opere immortali.
Un giovane, la cui cultura era enorme, seduto davanti a un tavolo tappezzato di preziosi volumi dalla copertina in pelle, mentre attorno alle mura scorreva una vita a cui si sottraeva.
Fra tante ricordo una poesia, Il sabato del villaggio.
Versi colmi di malinconia e desiderio: speranza per l’attesa di una felicità eterea che pare irraggiungibile, tristezza per la consapevolezza che coltivare il sogno sia più gratificante del viverlo.
Quante volte la realtà mostra un volto differente da quanto si era immaginato? Leopardi avverte di non illudersi, poiché la delusione sarà intensa.
L’uomo tende a pianificare, programmando il futuro che vorrebbe e, proiettandosi nell’aspettativa, perde di vista il presente che scivola via, inesorabile, perdendosi.
Leopardi racconta l’eccitazione dell’attesa della domenica che fa del sabato un giorno migliore rispetto alla festa, poiché si pregusta una felicità sconosciuta il giorno dopo.
Si può paragonare la vita a un viaggio composto da diverse tappe, in cui il protagonista si concentra sulla destinazione senza accorgersi del paesaggio limitrofo.
Quando si arriva, il posto non sempre è come lo si aspetta e talvolta si rimane delusi.
Può accadere che il panorama migliore fosse lungo il percorso ma, catturati dalla frenesia dell’approdo, non sia stato notato.
E’ bello tagliare il traguardo, assaporare il piacere di giungere alla meta, fermarsi a riposare sorseggiando una bibita rinfrescante, ma forse è altrettanto piacevole viaggiare di per sé, assaporando profumi, colori e incontri in cui perdersi.
Ci sono attività che vengono svolte con un obiettivo: ad esempio produrre un’opera, in qualunque settore, che incontri il gusto del pubblico e abbia successo.
Colpire il centro del bersaglio è indubbiamente gratificante.
Massimo Catalano sosteneva simpaticamente che fosse meglio arrivare primi che ultimi: tutti concordiamo.
Certe volte però, l’emozione che ha origine dal veder nascere qualcosa sotto gli occhi e prendere vita, come per magia, ha un sapore più intenso rispetto a un premio o a una medaglia.
Penso alla tela bianca di un pittore che si trasforma in un’immagine, a un materiale inerte che diventa scultura, a una coreografia che rende visibile la musica in movimenti, o a lettere dell’alfabeto che s’intrecciano, ricamando un’affascinante trama su una pagina bianca.
Penso anche al sudore di un atleta, professionista o amatoriale, appagato dalla fatica del gesto, all’impegno di un cuoco che tramuta gli ingredienti in un piatto profumato, a un artigiano che prende del materiale e lo tramuta in un abito, una borsa, un gioiello, oppure a un insegnante che apre orizzonti nella mente dell’allievo.
La soddisfazione che accompagna l’artefice gli fa dimenticare la destinazione del cammino, perdendosi nell’ebbrezza dell’attività.
Leopardi, ne “Il sabato del villaggio”, delinea l’ansia e la delusione provocate da un’attesa che non si realizza.
Vasco Rossi, in “Una splendida giornata“, sottolinea l’atteggiamento di chi allontana lo sguardo dalla fine della strada, soffermandosi sul terreno che calpesta, cogliendone le sfumature per vivere ciò che offre.
Non importa se la giornata è finita: «ciò che conta è che sia stata una splendida giornata, sempre con il sole in faccia fino a sera, finché la sera di nuovo sarà».
Paola Iotti