La lotta al Califfato si sposta in Iraq: una scelta in cui perdono tutti

Lotta al Califfato

(171127-M-MC999-1056 ) UNDISCLOSED LOCATION, Iraq (Nov. 27, 2017) – U.S. Marines deployed in support of Combined Joint Task Force- Operation Inherent Resolve pose with Iraqi service members in Iraq. CJTF - OIR is the global Coalition to defeat ISIS in Iraq and Syria. Marines deployed in support of CJTF-OIR advice and assist Iraqi Security Forces as they liberate the country from ISIS. (U.S. Marine Corps photo by Capt. Christian Lopez )

Le truppe americane ritirate dalla Siria non torneranno a casa ma continueranno la lotta al Califfato spostandosi in Iraq.

A dichiararlo è il direttore del Pentagono Mark Esper. Il quale afferma di essersi già accordato con l’Iraq, al fine di spostare sul fronte iracheno il migliaio di truppe USA ritirate dal fronte siriano. L’obiettivo di un simile piano è ovviamente quello di continuare la lotta al Califfato, che, come ormai abbiamo appreso, potrebbe sfruttare l’offensiva turca contro i curdi a suo favore. Riorganizzando le proprie milizie, liberando i prigionieri e riaffermando il proprio controllo su alcune porzioni di territorio.

La decisione del Pentagono, però, apre verso nuovi e ulteriori problemi. Come interpretare, infatti, questa decisione? Come collocarla all’interno di uno scacchiere internazionale che vede Trump fautore di una propaganda mirata al rientro delle truppe USA dal Medio Oriente?

La situazione in Siria

L’offensiva turca ai danni dei curdi ha preso piede subito dopo l’annuncio del ritiro delle truppe americane. Un’offensiva, da quel che sappiamo, priva di qualsiasi giustificazione effettiva, portata avanti tramite violenti bombardamenti sulle città e, di conseguenza, ai danni della popolazione civile. L’offensiva, nonostante le proteste della comunità internazionale, ha dimostrato inoltre la completa impotenza di tale comunità, davanti al verificarsi di simili eventi.

Il mondo intero si è trovato, infatti, spaccato tra nazioni che condannano aspramente l’azione turca; nazioni che la giustificano; e altre nazioni che, pur condannandola, si dicono in favore della strategia del “stiamo fermi e guardiamo un po’ che succede“. La comunità internazionale si è dunque scoperta incapace e impotente; impossibilitata a prendere qualsiasi decisione utile, al fine di limitare i danni di questa ulteriore escalation di violenza.




Giovedì è stato raggiunto, contro ogni previsione, un accordo di “cessate il fuoco“, tra le forze curde e quelle turche. Nonostante questo, però, le violenze continuano, da un lato e dall’altro dello schieramento, anche a causa della già citata comunità internazionale, incapace di agire tempestivamente al fine di garantire il rispetto completo dell’accordo.

La decisione del Pentagono

In questo scenario, la scelta del Pentagono di spostare le truppe dalla Siria all’Iraq, risulta, di conseguenza, quasi incomprensibile. Il primo fattore da analizzare, infatti, riguarda la volontà di Trump di siglare il rientro in patria delle truppe presenti in Medio Oriente. Certo, non sarebbe sbagliato riconoscere tale volontà come una semplice mossa propagandistica. Tuttavia, alla luce della politica protezionista e, di conseguenza, isolazionista, portata avanti dal Tycoon, il rientro in patria delle truppe stazionate all’estero rappresenta un elemento perfettamente coerente e quasi necessario. E’ dunque piuttosto probabile che Trump voglia davvero il rientro delle truppe, ma altri fattori, improvvisi, anche se facilmente prevedibili, devono averne modificato i piani.

E’ infatti probabile che all’annuncio del ritiro delle truppe dal fronte siriano, il programma di Trump prevedesse di riportarle a casa. Se l’idea di spostare le truppe in Iraq fosse stata fin da subito presente, unita alla volontà di continuare la lotta al Califfato, infatti, non vi sarebbe stata alcuna necessità di spostarle tutte, lasciando scoperto, in questo modo, il fronte essenziale della guerra in questione. Si sarebbe invece cercato di garantire la miglior copertura possibile per tutti e due i fronti in questione, siriano ed iracheno.

La decisione, infatti, sembra più che altro essere una scelta di ripiego. Un modo per cercar di rimediare alle accuse lanciate dalla comunità internazionale nei confronti degli USA, ritenuti colpevoli, probabilmente a ragione, di aver dato il via effettivo all’offensiva turca, ritirando le truppe dalla Siria.

Una volta deciso il ritiro delle truppe, infatti, risulterebbe quasi impossibile il “ritornar sui propri passi”.

La scelta del Pentagono potrebbe dunque essere un modo per limitare i danni d’immagine all’America di Trump. Spostando le truppe in Iraq, infatti, non è più possibile accusare gli USA di volersi chiamar fuori dalla lotta al Califfato. Ma la decisione in questione, in realtà, lascia dietro di sé una miriade di sconfitti.




I primi sconfitti sono ovviamente i curdi siriani, che, di fatto, resteranno alla mercé delle armate turche. Ad essere sconfitta è anche la propaganda trumpiana in favore del rientro immediato delle truppe che, a quanto pare, dovrà essere rimandato ancora di qualche anno. Non sarebbe infatti errato affermare che, la patata bollente delle truppe USA in Medio Oriente, potrebbe passare intatta alle mani del candidato presidenziale che uscirà vincente dalle elezioni 2020.

Ad essere sconfitta è poi la comunità internazionale nel suo insieme, che sempre più si dimostra incapace, per mancanza di mezzi ideologici e giuridici, di mettere in campo azioni tempestive ed efficaci contro comportamenti facilmente identificabili come scorretti e illegittimi.

Tutti risultano sconfitti ad eccezione della Turchia, che può continuare indisturbata la sua opera di conquista, e del Califfato, che, quatto quatto, riorganizza le sue truppe.

 

Andrea Pezzotta

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