La lingua di Dante: neologismi e proverbi entrati nell’uso comune

La lingua di Dante

Che lingua utilizza Dante nella Commedia? Quante di quelle espressioni usiamo ancora oggi, inconsapevolmente?

Dante Alighieri è considerato il padre della lingua italiana. Erich Auerbach in Mimesis a tal riguardo afferma che

La lingua di Dante appare quasi un miracolo inconcepibile […] Spesso si crede d’aver trovato donde egli abbia attinto questa o quella espressione, e invece le fonti sono tante, egli le accoglie e le impiega in modo tanto esatto, originario, e pur così suo proprio, che tale ritrovamento non fa che aumentare l’ammirazione per la potenza del suo genio linguistico.

Tutti riconosciamo l’importanza della Commedia dantesca, divenuta poi “Divina” grazie all’intervento successivo di Boccaccio che così definendola, diede il via alla tradizione. Oltre ai contenuti dell’opera, Auerbach si concentra su quello che lui definisce “miracolo”, cioè la lingua utilizzata da Dante nella Commedia, il fiorentino parlato nel Trecento, pur facendo largo uso di parole provenienti dalla lingua madre, il latino.

Numerose sono le espressioni che oggi ci ritroviamo ad usare, perché sedimentate nel lessico comune, risalgono proprio alla Commedia. Tullio De Mauro in Storia linguistica dell’Italia unita afferma che il 15% del lessico fondamentale italiano di metà Novecento era costituito proprio da vocaboli immessi nell’uso da Dante. Calcoli successivi dimostrano che la percentuale dovrebbe essere anche più alta.

La lingua di Dante: le espressioni entrate nel lessico comune





Tra le espressioni entrate nell’uso comune grazie a Dante, di derivazione latina, troviamo l’aggettivo fertile, nel canto XI del Paradiso, quello in cui Dante incontra San Francesco:

«Intra Tupino e l’acqua che discende / del colle eletto dal beato Ubaldo, / fertile costa d’alto monte pende, / onde Perugia sente freddo e caldo / da Porta Sole; e di rietro le piange / per grave giogo Nocera con Gualdo»

Da aggettivo relativo alla terra, che produce frutto, oggi il termine assume anche un significato metaforico; è il caso di “fertile immaginazione, fertile ingegno”.

Dante plasma il linguaggio a partire dalla radice latina; da qui l’enorme mole di neologismi e neoformazioni, alcuni di derivazione denominale o deverbale come il termine pennelleggiare, da pennello, per riferirsi all’arte della miniatura nel canto XI del Purgatorio, quando incontra Oderisi da Gubbio, noto miniatore dell’epoca:
«Frate», diss’ elli, «più ridon le carte / che pennelleggia Franco Bolognese; / l’onore è tutto or suo, e mio in parte. / Ben non sare’ io stato sì cortese / mentre ch’io vissi, per lo gran disio / de l’eccellenza ove mio core intese».

Spesso le neoformazioni sono composti parasintetici, costituiti dal prefisso in-. Tra questi, celebre e ancora utilizzato è il verbo inurbare con il significato di “entrare in città”. Meno comuni sono invece inmiarsi e inluiarsi, con il significato di immedesimarsi fortemente nell’altro, quasi fino a identificarvisi. Verbi che non a caso troviamo nel Paradiso, la cantica dell’ineffabile, di ciò che è difficile se non impossibile da esprimere a parole; per questo Dante deve ricorrere a un linguaggio nuovo, sapientemente inventato. L’esempio più celebre è quello del verbo trasumanare, col significato di “andare oltre la natura umana per immergersi in quella divina”, ma è lo stesso poeta ad affermare che
«Trasumanar significar per verba / non si poria; però l’essemplo basti / a cui esperïenza grazia serba».

Le formule proverbiali della Commedia

Ancor più celebri e diffuse sono però le formule proverbiali che dalla Commedia arrivano fino ai nostri giorni, con usi talvolta letterali, talvolta diversificati.
L’Inferno è sicuramente tra le cantiche quella più nota; chi non ricorda l’incontro di Dante con «quei due che ‘nsieme vanno, / e paion sì al vento esser leggieri». I due amanti Paolo e Francesca, condannati per adulterio, che leggendo dell’amore tra Lancillotto e Ginevra, rivelarono l’un l’altro i propri sentimenti.

«Galeotto fu il libro e chi lo scrisse» è la frase più celebre che richiama un intermediario che spinge all’azione, il Galeotto protagonista insieme ai due amanti del Lancillotto, appunto.

«Perdere il ben de l’intelletto», altra espressione che troviamo nell’Inferno, canto III, è oggi usata per riferirsi a qualcuno che ha perso la ragione. Nell’Inferno indicava i peccatori che hanno perso ogni scopo nella vita, che si sono lasciati trasportare da ciò che li ha condotti a peccare e a disviare.
Tra le formule proverbiali più note vi è sicuramente «Non ragionam di loro, ma guarda e passa», il monito che Virgilio rivolge a Dante nello stesso canto, parlando degli Ignavi, le anime rifiutate anche dall’Inferno, perché in vita non furono capaci di prendere alcuna posizione, né per il bene, né verso il male. Per questo non sono degni di essere presi in considerazione. Sono quelle anime che «visser sanza ‘nfamia e sanza lodo», altra espressione proverbiale divenuta celebre. Il canto III è sin dal principio tra i più memorabili; è l’accesso al mondo infernale, passando per la porta sulla quale troviamo il monito più famoso di tutti, che così termina «Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate».

Eppure, dopo aver attraversato tutto il dolore racchiuso nella voragine infernale, Dante e Virgilio ritornano su, «a riveder le stelle».

 

Carmen Alfano

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