La lingua del Coronavirus
La lingua è un organismo vivente, come studiosi da sempre affermano. Se c’è una cosa su cui l’emergenza Coronavirus sta influendo, nella nostra quotidianità, è anche il nostro modo di parlare e relazionarsi con gli altri. Basti pensare a tutte quelle parole che stanno pian piano diventando il nostro lessico quotidiano. Osservando l’evoluzione di questi ultimi mesi è interessante notare quali sono stati i termini emersi maggiormente: una vera e propria lingua del Coronavirus.
In principio era il Covid-19
È l’11 febbraio quando l’Organizzazione Mondiale della Sanità rilascia una dichiarazione in cui compare per la prima volta la denominazione “Covid-19“: Coronavirus disease 2019. La denominazione afferisce ai primi contagi che hanno colpito la città di Wuhan il 31 dicembre del 2019. Nelle settimane successive la parola Coronavirus è stata, ed è tutt’ora, sulla bocca di tutti.
Sempre nel mese di febbraio, precisamente l’8, i giornali italiani hanno iniziato a scrivere un’altra parola: pandemia. Quando compare in Italia questa parola paradossalmente è per tranquillizzare: ciò che sta avvenendo in Cina non avverrà qui. Purtroppo le previsioni erano sbagliate, complici anche i più svariati virologi, che non mancano di confondere l’opinione pubblica. Con l’avvento dei virologi giungono nei media e nei giornali termini appartenenti al lessico tecnico-specialistico: spillover, per descrivere come il virus abbia effettuato un salto di specie, e droplet, le goccioline che vengono rilasciate dai soggetti contagiati e contagianti.
La quarantena
Nel mese di marzo si prende atto della situazione di pandemia e si dichiara lo stato di quarantena. L’OMS rilancerà con un anglicismo ben più utilizzato, ovvero lockdown: una situazione di emergenza in cui la libertà di circolazione è limitata. È interessante come ognuno di noi abbia la propria esperienza di questi mesi, più o meno drammatica, ma tutti quanti sono uniti in un senso di rilancio personale e collettivo. La stessa cosa succedeva anche in tempi di guerra, infatti si è raccontata una vera e propria guerra contro il virus: l’eroismo dei medici, gli ospedali come vere e proprie trincee, Macròn che afferma “siamo in guerra” di fronte ad un’intera nazione.
La prima fase ha certamente narrato una guerra, ma non ha dimenticato la pace, a volte anche l’ingenuità, di coloro che sono rimasti in casa in una cervantesca conquista dei balconi. Lo smart-working (che rivelerà col tempo il suo essere “smart”) e il lavoro telematico stanno rivoluzionando lo stile di vita e la dimensione di molte aziende.
Fase due
Il 4 maggio è stata la data della tanto agognata fase due: abbiamo riabbracciato un po’ di quella libertà che sempre ci è appartenuta. Tramite decreti e conferenze stampe si sono pian piano insinuate ulteriori espressioni: gli ormai celebri congiunti e gli assembramenti e il distanziamento sociale. Tutte parole correlate ad un lessico giuridico, con echi derivanti dal latino, entrate in modo molto rapido nella nostra quotidianità. Ormai è difficile non associare, ad esempio, alla parola assembramento un concetto negativo, quando in origine non era così.
Stiamo affrontando un periodo fuori dall’ordinario. Questi vocaboli, entrati nel quotidiano, esprimono in modo chiaro il fatto che la lingua, compresa pure la lingua del Coronavirus, sia viva e risponde in base a ciò che la realtà offre. Si spera presto che la realtà possa offrire stimoli migliori: una realtà senza distanziamenti sociali, dove i congiunti divengono amici e affetti e dove gli assembramenti sono occasione per stare insieme. In poche e sognanti parole: una realtà senza più Covid.
Jacopo Senni
Proprio vero, senza accorgersi abbiamo riempito il nostro vocabolario di termini che solo qualche mese fa non avrebbero avuto senso in un discorso