Il fenomeno migratorio è ormai da diversi anni al centro del dibattito politico. Nonostante ciò nel nostro paese si parla ancora poco della letteratura della migrazione e del contributo sociale e culturale prodotto dai testi scritti da autori di origine non italiana.
A differenza di altri paesi europei in cui le conseguenze del colonialismo hanno avuto un impatto maggiore e i grandi flussi migratori hanno preso avvio molto prima, in Italia possiamo cominciare a parlare di letteratura della migrazione solo a partire dai primi anni Novanta. Il detonatore di questo tipo di pubblicazioni fu un caso di cronaca nera accaduto nel 1989 quando Jerry Maslo, un bracciante sudafricano di 30 anni, venne ucciso dal caporalato a Villa Literno, in provincia di Caserta.
Le risposte all’indignazione causata da questo omicidio furono molteplici: venne organizzata la prima manifestazione antirazzista in Italia. Da qui vide la luce il primo intervento normativo in materia di immigrazione (Legge Martelli) e cominciarono ad apparire i primi testi scritti da immigrati in cui si faceva riferimento alla tragica vicenda.
È in questo momento che gli immigrati cominciano a prendere la parola per raccontare e denunciare condizioni di vita spesso insostenibili, episodi di sfruttamento e di razzismo, la solitudine e la difficoltà dell’integrazione. Portando così all’attenzione del paese l’emergere di una questione con cui ancora oggi dobbiamo confrontarci.
A fronte di questa presa di coscienza e dell’interesse che le piccole case editrici cominciarono a manifestare verso questi testi, va però segnalato un nodo problematico riguardante l’autorialità. Le prime opere della letteratura della migrazione furono infatti testi scritti a quattro mani. Si trattava di collaborazioni tra immigrati e autori o giornalisti italiani in cui il ruolo di questi ultimi spesso eccedeva la semplice attività di revisione linguistica. Considerando la prevalenza dell’elemento autobiografico e il valore di testimonianza di queste opere, il problema che si poneva era in quale misura si era disposti a riconoscere legittimità al racconto dell’altro (straniero) e alla sua capacità di autorappresentazione senza cedere alla tentazione paternalistica dell’appropriazione.
Questo tipo di collaborazioni, tra cui ricordiamo Io, venditore di elefanti di Pap Khouma e Oreste Pivetta nel 1990 e Princesa di Fernanda Farias De Albuquerque e Maurizio Jannelli nel 1994, rimane tuttavia di incontestabile importanza e può in alcuni casi essere considerato un passaggio necessario verso l’autonomia linguistica dello scrittore immigrato. Autonomia che non significa, evidentemente, assoggettamento, poiché uno degli elementi più interessanti che possiamo riscontrare in molti di questi testi è proprio la capacità di tessere una trama linguistica ibrida. Una contaminazione in cui si assiste ad una continua negoziazione tra la lingua d’origine e quella in cui si sceglie di scrivere.
Sottolineiamo l’elemento della scelta da parte di autori immigrati di prima generazione che spesso, oltre alla propria madrelingua e quella del paese ospite, conoscono e si esprimono anche in altre lingue (un esempio è la scrittrice di origine albanese Elvira Dones). Vi sono inoltre scrittori che per diverse ragioni si sono ritrovati a vivere la condizione di esule e hanno scelto l’italiano come lingua di espressione narrativa o poetica, come l’iraniano Bijan Zarmandili o l’albanese Gëzim Hajdari. Per altri ancora invece la scelta dell’italiano è stata condizionata dall’esperienza coloniale in paesi come la Somalia (da cui proviene Shirin Ramzanali Fazel) o l’Etiopia (terra d’origine di Gabriella Ghermandi). Un caso particolare è quello di Santino Spinelli, conosciuto con il nome d’arte Alexian, Rom abruzzese che racconta la cultura del suo popolo attraverso la musica, la letteratura e la poesia.
A distanza di quasi trent’anni dalla pubblicazione dei primi testi scritti da immigrati siamo ormai arrivati anche in Italia a leggere autori di seconda generazione, persone di origine straniera nate e cresciute in Italia, come le scrittrici e giornaliste Igiaba Scego (La mia casa è dove sono, La linea del colore), Espérance Hakuzwimana Ripanti (E poi basta. Manifesto di una donna nera italiana), Randa Ghazi (Oggi forse non ammazzo nessuno), Djarah Kan (Ladri di denti) e Oiza Queens Day Obasuyi ( Corpi estranei).
Potremmo a questo punto domandarci se la definizione di letteratura della migrazione non sia un’etichetta troppo generale e poco accurata per descrivere la molteplicità di esperienze e di vissuti che ne compongono il panorama. Possiamo tuttavia identificare un elemento comune nel sentimento di vivere ai confini tra due mondi, due lingue e due culture diverse, che portano gli autori ad esercitare una mediazione continua tra le diverse sfaccettature della loro esperienza.
È proprio questa condizione “di confine” che vivono e traspongono su pagina questi scrittori a costituire la principale caratteristica della letteratura della migrazione che, oscillando continuamente tra l’io e il noi, speranze e nostalgia, storia personale e storia collettiva, contribuisce a riempire i vuoti di una narrazione rimasta troppo a lungo incompleta, privata della voce dell’altro.
Il fenomeno della letteratura della migrazione sposta infatti l’attenzione sul secondo termine della dicotomia individuata da Francesco Remotti tra identità e riconoscimento. Se l’identità veicola un’idea di appartenenza chiusa e unitaria, il riconoscimento implica al contrario la dualità dialogica, la molteplicità, lo scambio e la reciprocità.
Riconoscere l’altro diverso da sé allarga le maglie del discorso, restituisce la complessità del reale tendendo ad aumentare lo spettro della rappresentazione.
Negli ultimi anni le opere della letteratura della migrazione hanno avuto il merito di porre l’attenzione su come il nostro paese è cambiato e sta cambiando, mettendoci di fronte ai pregiudizi e sgretolando le certezze identitarie di molti di noi. Il lavoro di questi scrittori è importante non solo per la qualità e le innovazioni letterarie che hanno apportato, ma anche e soprattutto perché attraverso uno sguardo nuovo contribuisce ad arricchire le nostre riflessioni e a spingere la battaglia culturale per il diritto al riconoscimento sempre più avanti.
Giulia Della Michelina
Un commento “da dentro”, da parte di una scrittrice e giornalista che osserva cio’ che e’ avvenuto e legge i cambiamenti, appartenenti anche alla sua vita. Mi permetto una segnalazione di linguaggio “spiazzante”: 24 scatti di Anna Belozorovitch, ascoltata in un convegno