Inizialmente interventista convinto arruolatosi come volontario nel primo conflitto mondiale, il poeta Giuseppe Ungaretti ha poi ripudiato la guerra per il resto della vita. Per comprendere cosa sia stata la guerra secondo Ungaretti, guardandola con gli occhi di chi la visse, è oggi più che mai prezioso tornare a immergersi nei suoi versi.
Quando penso a Giuseppe Ungaretti, per strano che sia non mi viene subito in mente il poeta di guerra. Il suo nome mi evoca piuttosto la lirica Allegria di naufragi, col suo indomito vitalismo. Oppure il volto di un uomo anziano dagli occhi vivaci che in un documentario di Pasolini degli anni ’60 difendeva il diritto di ognuno a fare l’amore con chi gli paresse. Eppure, Ungaretti è stato anche poeta di guerra e oggi nelle scuole è ancora studiato in quanto tale. Le più note tra le sue liriche raccontano l’esperienza atroce di soldato durante il primo conflitto mondiale. Un’esperienza che oggi, mentre da oltre centocinquanta giorni un conflitto infuria alle porte dell’Europa, diventa urgente tornare a interrogare. Ma che cos’era la guerra secondo Ungaretti?
Dall’interventismo al ripudio della guerra
Giuseppe Ungaretti, va ricordato, al primo conflitto mondiale si trovò a partecipare da interventista convinto. Quando l’Italia entrò in guerra, il 24 maggio 1915, lui si era già arruolato volontario nel diciannovesimo reggimento di fanteria della Brigata “Brescia”. Proprio con questa era giunto sul Carso, da dove narrò in versi appuntati su biglietti, cartoline e altri brandelli di carta la vita in trincea. Questi poi, raccolti dall’amico Ettore Serra, sarebbero confluiti nel 1916 nella prima raccolta Il porto sepolto. Ma nell’infuriare della battaglia, racconta il poeta in numerose interviste, non era la letteratura il punto. Il punto era sopravvivere cercando di preservare al tempo stesso un barlume di umanità.
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Per farsi un’idea di che cosa sia stata la guerra secondo Ungaretti, e in particolar modo la Prima Guerra Mondiale, basta leggere quanto segue:
L’uomo nella guerra manifestava i suoi peggiori istinti. Anche se quella guerra quando c’eravamo entrati, quando l’avevamo voluta, ci sembrava che fosse l’ultima. Ci sembrava che fosse la guerra per liberare l’uomo dalla guerra. Che illusione cruenta! La guerra non libera mai l’uomo dalla guerra. La guerra è e rimarrà sempre l’atto più bestiale dell’uomo. E purtroppo la Storia c’insegna, anche in questi giorni, che l’imperialismo e la necessità di dominare gli altri attraverso la violenza non sono cessati.
La guerra secondo Ungaretti: l’orrore…
Al di là di questa nettissima presa di posizione, tuttavia, per capire cosa sia stata davvero la guerra secondo Ungaretti occorre immergersi nei suoi versi. Quando lo si fa, c’è un primo elemento che emerge con un’evidenza devastante: l’orrore. Un orrore che cozza con una violenza estrema e radicale contro ogni retorica che tenti di romanticizzare e nobilitare il conflitto e la figura del combattente. La guerra nei versi di Ungaretti è il sordido spettacolo di cadaveri mezzo eviscerati gettati nelle trincee. Di uomini con gli occhi sbarrati di terrore e la bocca spalancata in un ultimo urlo di pena. Non c’è gloria, non c’è nobiltà, ma solo uno spettacolo truculento e insensato che grida vendetta a Dio.
Si pensi, ad esempio, alla famosissima lirica Veglia, nella quale il poeta racconta di una notte atroce trascorsa accanto al cadavere di un compagno:
Un’intera nottata
buttato vicino
a un compagno
massacrato
con la sua bocca
digrignata
volta al plenilunio
con la congestione
delle sue mani
penetrata
nel mio silenzio
[…]
Per quanto Ungaretti, con una sorta di pietà dello sguardo, non sconfini nel macabro, chi legge questa lirica riceve fortissima la sensazione che narra. Quella di un vivo costretto a restare per tutta la notte accanto a un morto. A vedere, pur non volendo guardare, il volto immobile e deformato dallo strazio del cadavere. Le sue mani congestionate dal rigor e dall’inizio dei processi di decomposizione. La guerra secondo Ungaretti è anche questo: l’ordinarietà della morte violenta. E lo scandalo del finire per convivere con il fatto che in qualsiasi momento dell’uomo possa essere fatto scempio per mano dell’uomo.
… il dolore…
Un secondo elemento che emerge prepotentemente nel ritratto della guerra secondo Ungaretti è il dolore. Un sentimento che nelle poesie di guerra si declina in molteplici modi.
Nella lirica Sono una creatura, ad esempio, la chiusa è costituita da tre versi, cinque parole in tutto, sconcertanti nella loro lapidarietà:
La morte
si sconta
vivendo.
Un’osservazione che è vera anche in tempo di pace: gli umani sopravvivono ai loro cari e c’è qualcuno che poi sopravvivrà loro. Ma in tempo di guerra è diverso. Non solo perché troppo spesso i genitori sopravvivono ai figli, ma perché in guerra si uccide. E così è anche questa morte che si sconta vivendo: il sopravvivere consapevoli di aver ucciso.
Il dolore, del resto, è anche la misura di quanto in guerra va perduto. Questo aspetto è espresso con straordinaria intensità dalla lirica San Martino del Carso:
Di queste case
non è rimasto
che qualche
brandello di muroDi tanti
che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tantoMa nel cuore
nessuna croce mancaÈ il mio cuore
il paese più straziato.
La guerra distrugge case, paesi, luoghi cari a qualcuno. Allo stesso modo, essa distrugge vite e relazioni umane delle quali, scrive il poeta, non restano in piedi neppure le macerie. La guerra secondo Ungaretti ha questo potere: riesce a fare dei cuori degli uomini dei cimiteri.
… e la redenzione
Un ultimo – e per certi versi sconcertante – aspetto che si ritrova nella poesia di guerra di Ungaretti è la redenzione. Con ciò non s’intende affermare che la guerra secondo Ungaretti redime l’essere umano: non è assolutamente così. Piuttosto, nel bel mezzo della guerra ci sono attimi di meraviglia e gratitudine, tanto per il mondo naturale quanto per l’essere umano, che sopravvivono.
Rispetto al mondo naturale, gli esempi sono davvero moltissimi. Il più celebre è forse contenuto nella poesia I fiumi. In essa, il poeta racconta di essersi immerso nell’Isonzo durante un momento di tregua. Qui, benedetto dalle acque limpide, Ungaretti riferisce di aver ripercorso con la memoria tutti i fiumi della propria vita e di aver ritrovato una comunione profonda col reale:
[…]
e qui meglio
mi sono riconosciuto
una docile fibra
dell’universo.
[…]
Ma non mancano – e forse sono i più preziosi – neppure i momenti (sebbene più rari) nei quali è il mondo umano a destare la meraviglia. L’esempio più evidente si ritrova nella lirica Fratelli:
Di che reggimento siete
fratelli?
Parola tremante
nella notte
Foglia appena nata
Nell’aria spasimante
involontaria rivolta
dell’uomo presente alla sua
fragilità
Fratelli.
“Fratelli”: una parola semplice, eppure scandalosamente paradossale nel dolore e nell’orrore della guerra. Non soltanto per uomini distanti per cultura e provenienza trovatisi accomunati da un’uniforme. Anche per uomini, divisi più che da idee e valori, dallo spazio ristretto di una trincea.
Quando penso a questa lirica, più che a uomini dello stesso esercito che s’incontrino, penso a soldati di eserciti diversi. Affini per parlata, magari, che sulle prime non si riconoscano come nemici. In quello spazio sospeso prima di vedere i propri opposti colori, in quel “fratelli”, sta la più densa delle critiche alla guerra che, a mio parere, si possa immaginare.