La dimensione della “guerra”, unita a quella del “gioco”, esiste da sempre ed è molto diffusa: pensiamo ai soldatini di piombo, alle pistole giocattolo o alle gare di softair (sport conosciuto anche come “tiro tattico sportivo”). La stessa unione la ritroviamo anche nel panorama dei videogames: quelli di guerra, sostanzialmente, simulano dei combattimenti su scala e ruoli diversi. Ma non è sempre così…
Giocare alla guerra
Quando immaginiamo la guerra nei videogiochi, di solito, pensiamo a simulazioni di combattimento, per lo più in prima persona. Come è il caso dello stranoto sparatutto Call of Duty, o di altre riproduzioni più realistiche: fingere di essere parte di una squadra di soldati, catapultati in uno scenario esotico e con armi di ogni tipo e continue esplosioni. Un turbinio di riflessi guidati da primitivi sentimenti aggressivi, un tendenzialmente malsano (a mio dire) condensato di “istinto del killer” per gioco, virtuale, ma con un concreto stress euforico sulla mente. Oppure si potrebbe avere un intero esercito al proprio comando in una guerra fantascientifica, come nel gioco di strategia militare Command and Conquer. O ancora, svolgere i compiti speciali di una più ristretta squadra di soldati americani in ardite missioni durante la seconda guerra mondiale, come nel gioco di tattica militare Commandos.
Pensate se, invece di “farla” la guerra, doveste sopravvivere durante un conflitto… Una cosa su cui non ci soffermiamo è la prospettiva secondo cui si rappresentano i conflitti armati: quella dei soldati e di chi li comanda, e non la guerra vista dai civili. Esiste un gioco dove quest’aspetto è completamente ribaltato, e dove l’obbiettivo principale non è sterminare il nemico ma sopravvivere: si chiama This War of Mine (abbreviato con la sigla TWoM) e appartiene al cosiddetto genere dei survival games (ossia videogiochi di sopravvivenza), categoria dove è incluso anche il più noto Minecraft.
Durante il giorno: la cura del rifugio
Immaginate di guidare le vite di tre personaggi, un po’ come nel “simulatore di vita” The Sims ma in un contesto totalmente diverso: una città balcanica, governata da forze ribelli, è sotto assedio dalle forze governative. Sono gli anni della dissoluzione dell’ex-Jugoslavia, anche se nel gioco vengono usati dei nomi e riferimenti di fantasia. La guerra che sarebbe dovuta durare poche settimane va avanti da anni. I nostri tre “eroi” si trovano in una casa diroccata. Qui è ambientata la maggior parte della storia del videogioco, durante la fase del giorno.
I tre personaggi rovistano tra le macerie: devono trovare materiali per riscaldarsi, per curarsi, per mangiare, per raccogliere acqua piovana, per creare barriere di difesa dai ladri, sperando che anche loro stessi non debbano finire a rubare e uccidere per sopravvivere, diventando “antieroi”. A volte incontrano persone con cui barattare praticamente di tutto: bende per tamponare le ferite, erbe medicinali, sigarette, attrezzi da lavoro, un orsacchiotto di peluche… Altre volte qualche vicino bussa alla loro cadente porta per chiedere aiuto, magari in un momento in cui si è affamati, feriti o malati… Cosa dovrebbero fare? Aiutarli o esporsi a una situazione ancora più precaria, ammesso che ne abbiamo le forze? E cosa fare quando invece alla porta si presentano dei miliziani che stanno facendo dei rastrellamenti?
Durante la notte: la caccia alle risorse e il possibile, ma drammatico e non necessario, ricorso alla violenza
La notte è la seconda parte delle almeno trenta giornate in cui si può articolare il gioco, sempre se arriviamo all’ultimo livello (che potrebbe prolungarsi fino alla cinquantesima giornata). Qui lo scenario cambia: a turno, idealmente, qualcuno resta a vigilare sul nostro rifugio di fortuna, un altro riposa e un altro va a caccia di risorse. Se si ha una radio, oltre ad avere accesso alla musica che ci tira su, è possibile avere informazioni più sicure sui luoghi per la ricerca. I posti dove andare sono diversi, quando accessibili: il personaggio potrà derubare degli anziani, provare a saccheggiare un ospedale o più onestamente rovistare in quello che resta di un supermercato, magari transitando in una rischiosa strada con cecchini da tutte le parti.
Si dovranno fare delle scelte cruciali: i tre personaggi non sono sempre gli stessi (ce ne sono dodici nella versione originale del gioco) e ognuno ha una storia, personalità, debolezze e abilità. Alcuni sono addestrati a combattere, altri hanno dimestichezza nel costruire oggetti. Altri ancora possono essere più portati nelle negoziazioni per i baratti, essere più prestanti dal punto di vista fisico o bravi a suonare uno strumento musicale, una piccola gioia che può tirare su il morale quando attorno esplodono bombe e il tempo sembra non passare mai… Prima della guerra scrivevano per un giornale, erano scienziati, maestri di scuola, giocavano in una nota squadra di calcio o erano dei miliziani ribelli. Certi potrebbero essere più freddi, inclini alle scorciatoie della violenza per sopravvivere, rapinando altri civili come loro… Altri invece si sentirebbero in colpa così tanto da rendersi conto di essere diventati dei mostri, fino ad arrivare al gesto estremo del suicidio. Se almeno uno di loro non arriva all’agognata tregua dei combattimenti sarà game over. È interessante notare che, tra gli appassionati di questo titolo, esistono indicazioni e guide su come sopravvivere senza ricorrere alla violenza, e quindi senza rubare o uccidere. Quest’ultimo concetto deve farci riflettere sulla spettacolarizzazione della crudeltà nei videogiochi, e su come la loro struttura può aiutarci a indagare e rapportarci con aspetti etici della nostra esistenza invece che banalizzarli, così come avviene anche in altre forme di arte e intrattenimento.
Radical games: la critica alla guerra nei videogiochi
TWoM, uscito nella sua prima edizione nel 2014, non è il primo videogioco in assoluto a raccontare la guerra dal punto di vista della popolazione civile, anche se è quello più strutturato e commercializzato. Nel 2008 fu sviluppato un altro titolo, dal nome Hush, che tradotto in italiano significa “silenzio”. Ispirato agli eventi del genocidio ruandese, al suo centro ha una madre che deve riuscire a non far piangere la sua bimba per non essere scoperta nel suo nascondiglio.
Sono vari i giochi che criticano e fanno satira sui conflitti, anche se in molti casi non incolleranno allo schermo giocatori per ore, ma sono piuttosto delle storie molto brevi che aiutano a riflettere sull’orrore della guerra, spesso realizzati con poche risorse e dalla grafica scarna. Appartengono ai cosiddetti “radical games”, in quanto il principale obiettivo è la critica sociale tramite l’arte videoulica. Uno di questi è Unmanned, che rappresenta la vita di un pilota di droni da combattimento con una fortissima carica di dark humor.
Sicuramente più noto e commercializzato, oltre che strutturato come un vero e proprio gioco di strategia, è un altro storico titolo: Cannon Fodder, che vuol dire “carne da cannone”. Anche qui si guidano squadre di militari visti dall’alto. È stato molto criticato per la sua violenza: gli autori si sono difesi appellandosi al diritto di fare satira sulla strumentalizzazione del ruolo dei soldati nei conflitti.
La guerra nei videogiochi: tanto “sangue”, pochi titoli educativi, ma possibili effetti positivi?
Anche se in molti giochi di guerra esistono riferimenti storici accurati e descrizioni di combattimenti realistiche, credo che la prospettiva di TWoM sia tendenzialmente più veritiera… Sicuramente più ampia rispetto a quella che tende a glorificare la dimensione del combattimento.
Oggi non sono più un gamer accanito, anche se soprattutto negli anni dell’adolescenza ho impiegato male il mio tempo videoulico: avrei potuto spendere tantissimo tempo con giochi più stimolanti, come le simulazioni di esperimenti scientifici, oppure con quelli con un valore didattico, come quelli per allenare la lettura. Invece ho buttato tantissime ore “girando come un gangster” nell’open world della miniatura di una città americana, come nella saga di Grand Theft Auto… Io credo che il problema riguardi l’intero mercato della cultura e dell’intrattenimento e, in particolare, della disponibilità di giochi più fruttuosi dal punto di vista educativo: alcuni temi come quello del “sangue”, nel senso di scenari cruenti e storie violente, sono più facili da vendere. Non penso che il tema della violenza non debba essere rappresentato, ma ritengo che lo si debba fare con le cautele necessarie. Per quello che riguarda i contenuti, che siano di videogiochi, film o libri di narrativa, sta ai consumatori e ai produttori cercare di cambiare questa tendenza. Il primo passo in questa direzione è rinunciare, almeno in parte, al profitto immediato ed economico, concentrandosi di più su quello sociale e culturale di lungo termine.
Inoltre ci tengo a esprimere una mia opinione molto basilare sulle tecnologie in generale, e quindi anche sui videogames: a seconda di come li usiamo potrebbero avere degli effetti benefici (alcuni studi per esempio suggeriscono, in certi casi, un miglioramento delle capacità visive) così come deleteri (in primis quello della dipendenza).
Per quanto riguarda poi l’attitudine all’aggressività, a onor del vero, bisogna infine ricordare che sono molte le argomentazioni riguardo la violenza nei videogiochi e nell’arte: le rappresentazioni “crude” fungerebbero da valvola di sfogo di certi istinti primordiali che, se non altrimenti espressi, potrebbero a volte tradursi in una violenza nel mondo reale.
Voi siete d’accordo?!
Paolo Maria Addabbo