La guerra dell’acqua in Palestina

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La guerra dell’acqua in Palestina: così Israele utilizza la crisi idrica per il controllo e il dominio dei Territori Palestinesi Occupati

Martedì 23 maggio i soldati israeliani hanno chiuso dei pozzi d’acqua che riforniscono il villaggio palestinese di Bardala, nella Valle del Giordano settentrionale, privandolo quindi del suo fabbisogno idrico quotidiano.

L’attivista per i diritti umani Aref Daraghmeh ha dichiarato alla WAFA – l’agenzia di stampa ufficiale palestinese – che le forze di occupazione israeliane hanno fatto irruzione nel villaggio e chiuso i pozzi, ricordando che questa non è la prima volta, bensì la decima in due anni. Daraghmeh sostiene inoltre che gli abitanti di Bardala e di altre comunità nella Valle del Giordano soffrono per la mancanza di accesso a quantità sufficienti di acqua a causa del controllo delle autorità israeliane sulla maggior parte delle risorse idriche. Una situazione paradossale, se si pensa che gli israeliani che vivono negli insediamenti nella stessa zona ricevono il triplo del loro fabbisogno d’acqua.

Contrariamente a quanto si pensa, l’acqua nella regione non è scarsa, ma è fornita da tre importanti fonti naturali: il fiume Giordano, il bacino acquifero montano e quello costiero. L’acqua è scarsa quindi solo per una parte di popolazione, quella palestinese, cui è negato l’accesso alle fonti quasi completamente, mentre israeliani e coloni nelle terre occupate ne godono in abbondanza.

In questo senso, Israele esercita illegalmente la sovranità sulle risorse idriche dal 1967, da quando integrò una serie di ordinanze militari che gli hanno permesso di integrare il sistema idrico nei TPO (Terre Palestinesi Occupate) nel sistema israeliano. La stessa localizzazione delle colonie israeliane illegali nei TPO è stata decisa strettamente in funzione del controllo delle risorse idriche.

La crisi idrica che sta soffrendo la popolazione palestinese è direttamente correlata al contesto politico più generale dell’occupazione israeliana che comprende forme di apartheid, insediamenti ebraici illegali nei territori palestinesi, assedio e guerra.

Col sistema dell’apartheid, le autorità israeliane controllano praticamente ogni aspetto delle vite dei palestinesi e li sottopongono quotidianamente all’oppressione e alla discriminazione, attraverso la frammentazione territoriale e la segregazione giuridica. I palestinesi dei territori occupati sono segregati all’interno di enclavi separate tra loro mentre quelli che vivono a Gaza sono isolati dal resto del mondo a per via del blocco illegale perpetuato da Israele, che è anche causa di una crisi umanitaria e costituisce una punizione collettiva”, denuncia Amnesty International.

Nel frattempo, la violenza dei coloni israeliani contro i palestinesi è aumentata, tra aggressioni fisiche e danni alle proprietà. Tanto che l’ONU ha chiesto alla Corte Internazionale di giustizia di valutare le conseguenze legali dell’occupazione dei territori palestinesi da parte di Israele. Nel testo si denuncia un’attività prolungata di “occupazione, insediamento e annessione” da parte di Israele, aggiungendo come questo abbia modificato e alterato anche la composizione demografica, lo status e il carattere della città di Gerusalemme.

L’oro blu del Medio Oriente

Il controllo e la gestione delle risorse idriche è da sempre uno dei punti sensibili in Medio Oriente, dove è frequente il fenomeno del “water grabbing”, cioè “l’accaparramento dell’acqua”.

La guerra dell’acqua in Palestina è da anni al centro del conflitto. L’integrazione delle risorse idriche palestinesi nel sistema israeliano è stata perfezionata nel 1982 con il trasferimento delle infrastrutture idriche in Cisgiordania alla Compagnia israeliana Mekorot. I palestinesi sono quindi costretti a rifornirsi per una buona metà dei propri fabbisogni proprio dalla Mekorot e questa, avendo il controllo esclusivo del sistema integrato, durante i mesi estivi, per coprire il fabbisogno delle colonie, riduce del 50% la quota già attribuita ai palestinesi in modo totalmente iniquo.  Questa situazione non ha fatto altro che creare delle forti tensioni, sfociate in una vera e propria crisi quando, nell’estate del 2016, numerosi villaggi e campi profughi palestinesi sono rimasti senz’acqua per giorni.

Inoltre, Israele impedisce la costruzione e la manutenzione delle infrastrutture idriche nell’Area C (che include i territori palestinesi dove sono situate le colonie israeliane e che sono di fatto controllati dall’autorità civile e militare israeliana), che costituisce il 60% della Cisgiordania, e confisca e distrugge ogni opera per la quale manchino i permessi, peraltro sempre negati, anche se realizzati da organizzazioni umanitarie, mentre i coloni non devono chiedere nessun tipo di autorizzazione e tutti gli insediamenti illegali nei TPO sono connessi alla rete idrica.

La situazione è ancora più tragica a Gaza, dove le infrastrutture idriche sono state distrutte nel corso delle operazioni militari e la loro ricostruzione è impossibile poiché il conflitto rende difficile l’entrata di materiali necessari. Inoltre, il bacino acquifero che rifornisce Gaza, essendo sfruttato anche da Israele, è insufficiente al fabbisogno della Striscia e, trovandosi al di sotto del livello del mare, è spesso sottoposto a continue infiltrazioni di acqua salina. Il risultato è che il 95% dell’acqua non è idonea al consumo umano.

La disuguale e illegale gestione dell’acqua da parte di Israele attraverso la Mekorot rientra nella più ampia strategia israeliana di sottrarre territorio e risorse alla popolazione palestinese per impedirne la permanenza e rendendo quindi impossibile lo sviluppo dell’economia e di una qualità di vita accettabile. All’interno di questo tragico quadro, non si può non parlare di apartheid dell’acqua che mira all’espulsione dei palestinesi dalla loro terra e di cui Mekorot ne è il braccio operativo.

Secondo gli accordi di pace ad interim di Oslo del 1995, che hanno portato all’instaurazione della Palestinian Water Authority (PWA) e che quindi riconoscevano il diritto dei palestinesi all’acqua, la distribuzione delle risorse idriche tra israeliani e palestinesi sarebbe dovuta essere divisa rispettivamente all’80% per Israele e il 20% per i territori palestinesi, in attesa di uno statuto definitivo che avrebbe dovuto dare vita allo Stato palestinese. Questa soluzione, che attribuiva al PWA il controllo idrico di Gaza e di una porzione ridotta della Cisgiordania, stabiliva anche che la compagnia nazionale idrica israeliana Mekorot avrebbe venduto ai palestinesi circa 30 milioni di metri cubi di acqua all’anno.

Gli accordi di Oslo prevedevano anche la creazione di un  Comitato Congiunto per l’Acqua (JWC), costituito da un ugual numero di esperti sia palestinesi che israeliani per la gestione dei progetti idrici in Cisgiordania. Tuttavia, questo comitato si è rivelato un ulteriore strumento di controllo utilizzato da Israele per limitare la costruzione di infrastrutture idriche per i palestinesi. Nell’Area C, ai palestinesi non viene nemmeno consentito di costruire delle strutture idriche essenziali come pozzi o cisterne per la raccolta dell’acqua piovana.

Il fallimento degli accordi di Oslo, insieme alle prospettive di pace, hanno limitato lo sviluppo delle risorse idriche palestinesi portando ad una iniqua distribuzione dell’acqua della Cisgiordania, con il 15 % destinato ai palestinesi e l’85% a Israele.

Secondo l’ONU, gli accordi di OSLO avrebbero creato un sistema basato su fondamentali asimmetrie di potere, capacità e informazione. Questi accordi, che sarebbero dovuti durare cinque anni, hanno di fatto legittimato un’allocazione discriminatoria delle risorse idriche dando ad Israele un maggior controllo della falda acquifera montana, la principale fonte di acqua dolce della Cisgiordania.

La geografia dell’acqua 

Israele controlla le due principali fonti idriche palestinesi in Cisgiordania, ovvero il bacino del fiume Giordano a est e l’acquifero montano occidentale, i quali forniscono abbondanti quantità di acqua.

Attraverso l’annessione delle zone della Cisgiordania come la Valle del Giordano – portata avanti dai coloni con il sostegno del governo di occupazione e delle sue istituzioni – Israele intende impossessarsi degli acquiferi al di là dei confini israeliani, conservando quindi il controllo dei blocchi di colonie adiacenti ai bacini.

Benché solo il 37% del bacino del Giordano ricada in territorio israeliano, Israele ne sfrutta circa il 50% grazie alla deviazione di gran parte del suo flusso, tramite il National Water Carrier (NWC), un condotto che, dopo aver prelevato l’acqua nel Lago di Tiberiade, lo trasporta in Israele, fino al deserto del Negev. Attraverso questo enorme condotto, il fiume Giordano fornisce, ogni anno, fino a 700 milioni di mc di acqua ad Israele, pari a 1/3 del suo fabbisogno idrico totale. Questo tipo di deviazione ha contribuito ad un abbassamento del livello di acqua del Mar Morto, sfregiando il paesaggio, inquinando l’ambiente e danneggiando in modo irreversibile l’ecosistema locale.

Per quanto riguarda l’acquifero montano, esso si estende lungo i due versanti della linea verde (istituita nel 1949 e che divide i confini israeliani da quelli palestinesi), rappresentando la più importante sorgente d’acqua nell’area, sia per l’alta qualità della stessa che per la portata annua stimata intorno ai 700 mcm. Anche in questo caso, benché la falda idrica scorra prevalentemente nella Cisgiordania, il controllo sul suo approvvigionamento è nelle mani di Israele, che preleva e devia verso i propri territori e negli insediamenti dei coloni circa il 90% dell’acqua, mentre ai palestinesi ne resta solo il 10%.

Secondo gli aggiornamenti riportati dal Jordan Valley Solidarity, dall’inizio di marzo 2023 i coloni israeliani hanno iniziato ad appropriarsi di quattro sorgenti d’acqua presso la comunità di Khirbet Al Deir, nella valle del Giordano settentrionale. Tutte e quattro le sorgenti sono utilizzate dai contadini palestinesi per irrigare i campi. Tramite il Consiglio di Insediamento e altre istituzioni, hanno collocato diverse panchine e piante – soprattutto vigneti –  presso le sorgenti e hanno pubblicato informazioni sulla zona per promuovere le visite nell’area per far conoscere ai coloni israeliani aree strategiche di terra palestinese di fatto confiscate.

Nel 2020, nella Valle del Giordano, sono state confiscate altre due sorgenti. Oggi, solo sei famiglie palestinesi vivono stabilmente a Khirbet Al Deir.

Secondo Freed Taamallah, giornalista, agricoltore e attivista palestinese, questa annessione perpetuerà gli alti livelli di consumo dell’acqua da parte di Israele negando le necessità fondamentali dei palestinesi e obbligandoli a dipendere da Israele per l’acqua, preservando così lo status quo della divisione delle risorse idriche e spegnendo ogni speranza di uno Stato palestinese e di una pace sostenibile.

L’acquifero costiero è situato invece sotto il piano costiero di Israele, della Striscia di Gaza e della Penisola del Sinai. Dalla ricarica annua, Israele estrae 426 milioni di mc mentre Gaza ne estrae solo 146, quindi un quarto. L’eccessivo sfruttamento del bacino ha portato ad un grave deterioramento della qualità dell’acqua che viene inquinata dalle infiltrazioni di reflui agricoli e civili privi di depurazione, oltre che dagli inquinanti e residui derivanti dalle operazioni belliche. Sempre a causa dell’eccessivo sfruttamento, il livello della falda è sceso ormai sotto il livello del mare, per cui si verificano spesso anche abbondanti infiltrazioni di acqua salina. Date le condizioni dell’acqua, gli abitanti di Gaza sono costretti ad acquistarla o a desalinizzarla sotto pagamento che, in una situazione nota per la grande povertà e forte disoccupazione, per alcune famiglie significa spendere solo per l’acqua circa 1/3 delle proprie risorse economiche.

Poiché i palestinesi dei TPO hanno accesso solo al 10% del bacino acquifero montano, ad ¼ di quello costiero e a nessuno dell’acqua di superficie del Giordano, possono usare solo il 10% dell’acqua disponibile nella regione. Il rimanente 90% è trattenuto da Israele.

Strategie per il controllo idrico

Le strategie applicate da Israele per il controllo e il dominio sulle risorse idriche palestinesi vengono fatte risalire alla guerra dei sei giorni del 1967. I piani per lo sfruttamento dell’acqua del Giordano iniziarono subito dopo la proclamazione dello Stato di Israele nel 1948, attraverso la costruzione del condotto NWC. Il controllo dell’acqua è infatti considerato uno dei motivi principali dello scoppio della guerra dei sei giorni.

Attraverso l’invasione militare Israele si garantì l’accesso e il controllo delle più importanti risorse idriche della regione e, in funzione del loro controllo, sono state costruiti gli insediamenti coloniali illegali. All’occupazione seguirono poi una serie di ordinanze militari – tutt’ora vigenti – con cui il sistema idrico palestinese fu integrato a quello israeliano e che prevedono il trasferimento di tutte le risorse idriche e delle relative infrastrutture presenti nei TPO alle autorità militari israeliane, l’obbligo per i palestinesi di munirsi di autorizzazioni per la costruzione di qualsiasi opera idrica, pena la demolizione, e l’interdizione per i palestinesi di accedere alle zone del Giordano sotto il controllo militare.

Nel 1982, l’intero sistema idrico passò dalle autorità militari alla Mekorot, società di partecipazione statale che per l’acquisizione di infrastrutture del valore di 5 milioni di dollari pagò la cifra simbolica di 1 scekel (0.20 euro). Mekorot diventò quindi la principale società israeliana di estrazione e distribuzione idrica e oggi si presenta come il motore della politica di apartheid dell’acqua. Essa infatti sottrae acqua illegalmente dalle falde idriche palestinesi, deviando l’acqua del fiume Giordano e riducendone la portata, fornisce poi questa acqua alle colonie illegali nei TPO e ad Israele e, come se non bastasse, rivende ai palestinesi la loro propria acqua, maggiorando i prezzi e distribuendola in modo arbitrario.

Come detto in precedenza, anche gli accordi di Olso non riuscirono a correggere tale illegittima disparità di trattamento ma piuttosto la formalizzarono.

La situazione peggiora nel 2002 con la costruzione del Security Fence, un muro di oltre 700 km per dividere i confini israeliani da quelli palestinesi. La costruzione di questo muro ha permesso a Israele di inglobare ulteriori risorse idriche nelle aree dei TPO, dove sono situati ben 28 pozzi ad uso agricolo che costituiscono circa il 30% delle risorse acquifere occidentali che spettavano ai palestinesi dopo gli accordi di Oslo. Con la costruzione del muro, la quota dell’acquifero annesso da Israele è salito al 70%, privando i palestinesi dell’unica fonte idrica con un significativo potenziale e rivelando quindi l’intenzione di Israele di inglobare permanentemente le risorse idriche palestinesi.

Tra le altre strategie di controllo e dominio dell’acqua, si aggiungono la confisca e la demolizione delle strutture idriche esistenti o costruite senza i permessi. Amit Gilutz, portavoce di B’tselem, l’organizzazione per i diritti umani più rappresentativa di Israele, ha affermato che “per ogni pozzo nuovo, anche nei territori controllati dall’Autorità Palestinese, serve un permesso dall’Autorità civile regionale israeliana (ICA). L’acqua non è distribuita in maniera eguale e spesso le infrastrutture palestinesi, nelle aree militari controllate dagli israeliani sono danneggiate o letteralmente distrutte”. Agli agricoltori viene impedito di perforare nuovi pozzi o migliorare quelli vecchi, installare pompe e persino raccogliere l’acqua piovana, dove le loro sorgenti vengono sequestrate e i loro serbatoi d’acqua, cisterne e condutture distrutte. Nello stesso tempo, insediamenti e strade vengono costruite sui loro terreni agricoli.

Le forze di occupazione non intervengono solo sulle strutture di approvvigionamento idrico ma anche sulle opere fognarie e di sanificazione, che vengono distrutte se ritenute illegali. Lo stesso trattamento viene riservato anche alle strutture realizzate grazie agli aiuti umanitari.

Conseguenze per il popolo palestinese

Le conseguenze delle azioni di Israele nei confronti dei palestinesi riguardano quindi una totale iniquità delle risorse idriche. L’eredità dell’occupazione dei territori palestinesi da parte di Israele sono state sistematiche violazioni dei diritti umani su larga scala. Le conseguenze più evidenti riguardano sicuramente le politiche discriminatorie di Israele sull’accesso dei palestinesi a forniture adeguate di acqua pulita e sicura.

Nel 2017, Amnesty International ha incontrato i residenti della Valle del Giordano per assistere in prima persona all’impatto catastrofico che le restrizioni idriche hanno avuto sulla vita quotidiana della persone.

“Ihab Saleh, un coltivatore di zucca e cetriolo che vive a Ein al-Beida, un villaggio palestinese di circa 1.600 persone situato nella parte settentrionale della Cisgiordania, è una delle centinaia di migliaia di persone la cui vita e mezzi di sostentamento sono stati distrutti dalle restrizioni israeliane sull’acqua. Negli ultimi 25 anni ha visto la primavera locale asciugarsi gradualmente dopo che la compagnia israeliana Mekorot ha trivellato due pozzi vicino alla comunità palestinese di Bardala, per servire Mehola, un insediamento israeliano. La quantità di acqua che le autorità israeliane destinano al villaggio è diminuita nel corso degli anni, dice, ed è stata completamente tagliata fuori in numerose occasioni. Nonostante un accordo per compensare i villaggi palestinesi di Bardala e Ein al-Beida, dalla metà degli anni ’70, Israele ha ridotto significativamente la quantità di acqua disponibile per entrambe le comunità”, denunciano nella loro inchiesta intitolata “The Occupation of Water”.

Ad essere più colpite sono sicuramente le aree rurali e i campi profughi, come sostiene Meg Audette, vice-direttore delle Operazione UNRWA – l’agenzia ONU per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente -, che denuncia come nei campi le infrastrutture siano vecchie e che l’UNRWA non ha il mandato per creare nuove infrastrutture. Può solo monitorare la qualità dell’acqua e fare interventi minimi.

Secondo la maggior parte delle organizzazioni umanitarie israeliane e internazionali, il fulcro del problema è proprio l’Area C, dimenticata dall’autorità palestinese e vessata da quella israeliana. In questa area solo 16 villaggi su 180 sono collegati alla rete idrica degli insediamenti israeliani ma non alle fonti, diventando così di fatto forzatamente dipendenti dalla rete di Mekorot, che assegna ai palestinesi quote fisse mentre i coloni ricevono acqua in abbondanza. Sono oltre 30mila gli abitanti in Area C che vivono in condizioni precarie, molti con un consumo di acqua inferiore ai 20 litri al giorno, secondo i dati di UN-OCHA.

Secondo quanto prescritto dal Diritto Umanitario Internazionale, dalla Legge Internazionale sui diritti umani e dalla Legge internazionale sull’acqua, una potenza occupante come Israele deve, nella gestione del territorio e delle sue risorse, evitare ogni tipo di discriminazione. La realtà è ben diversa, se si pensa che Israele viola sistematicamente le norme vigenti, oltre ad aver disatteso un numero infinito di risoluzioni dell’assemblea generale del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

La Corte Internazionale di giustizia è intervenuta più volte nella questione israelo-palestinese, confermando l’applicabilità della IV Convenzione di Ginevra ai TPO – che vieta il trasferimento e la deportazione della popolazione occupata e considera inoltre crimine di guerra il trasferimento della propria popolazione nel territorio occupato, quindi le colonie, oltre a proibire la distruzione delle proprietà sia pubbliche che private del territorio occupato – e quindi l’obbligo per Israele di attenersi a quanto disposto dal Diritto internazionale umanitario, che gli attribuisce specifiche responsabilità, tra cui garantire la sicurezza e rispettare le leggi della popolazione occupata, proteggendone le proprietà e non sfruttando le sue risorse a beneficio della propria economia.

Il mancato rispetto di queste norme rende chiaro l’intento di Israele di assicurare alla popolazione israeliana e a quella delle colonie condizioni di vantaggio nell’uso delle risorse idriche, rendendo impossibili le condizioni di vita dei palestinesi, con l’obiettivo quindi di espellerli dalla loro terra.

Un’altra e specifica infrazione della IV Convenzione da parte di Israele, impone a tutti gli Stati cofirmatari, tra cui l’Italia, di non accettare questo stato di permanente illegalità e quindi di non cooperare al suo mantenimento, ma anzi di attivarsi per porvi fine. Ma si sa che il Diritto è rispettato solo quando vi sia un’autorità in grado di imporne il rispetto. E’ di questa grave inadempienza della comunità internazionale e, per quanto ci riguarda, dell’Italia che Israele ne approfitta.

Aurora Compagnone

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