La guardia costiera libica riceve altre due motovedette dall’Italia

La guardia costiera libica riceve altre due motovedette dall'Italia

Nonostante le numerose denunce delle ONG come Open Arms e Sea Watch nei confronti delle violazioni dei diritti umani e delle pratiche violente della guardia costiera libica, l’Europa e in particolare l’Italia continuano con l’invio di fondi ed equipaggiamenti con l’obiettivo di “contrastare i flussi di immigrazione irregolare”.

È  infatti di qualche giorno fa la notizia che il nostro Paese ha consegnato, presso l’Arsenale Militare di Messina, altre due unità navali “Classe Currubia” alla delegazione tecnica della Guardia Costiera libica. Alla cerimonia erano presenti rappresentanti della Direzione generale della Politica di vicinato e dei negoziati di allargamento della Commissione Europea, della Direzione centrale dell’Immigrazione e Polizia delle Frontiere, della commissione tecnica libica, dell’Agenzia Industrie Difesa e della Guardia di Finanza.

La prima imbarcazione è stata consegnata il 6 febbraio di quest’anno. In quel caso si trattava di una motovedetta “classe 300”, specializzata per le attività di salvataggio in mare e già largamente utilizzata dalla Guardia costiera italiana. In totale sarebbero 5 le motovedette (due “Corruba” e tre “Calsse 300”) che l’Italia si è impegnata a fornire alla Libia lo scorso 28 gennaio, in occasione della visita della presidente Meloni e del Ministro Tajani a Tripoli. In quell’occasione è stato infatti firmato un memorandum di intesa tra il governo italiano e quello libico così da “rafforzare la cooperazione con la Libia”, ha scritto in un tweet il ministro Tajani.




Il memorandum rientra nel quadro di un progetto europeo più grande , di cui l’Italia si è fatta portavoce. Si tratta infatti del SIBMMIL, ovvero il Support to Integrated Border and Migration Management in Libya, finanziato dal fondo della Commissione Europea “Trust Fund for Africa“. In totale, l’Unione Europea ha impegnato circa 700 milioni di euro in supporto alla Libia (dati del 2021), destinati alla “Protezione e assistenza dei bisognosi”, “Stabilizzazione delle municipalità libiche” e alla “Strategia di gestione integrata delle frontiere”.  Gli obiettivi principali del SIBMMIL, come si legge sul sito dell’UE dedicato, riguardano il rafforzamento della capacità operativa delle autorità libiche competenti in materia di sorveglianza marittima nel contrasto all’attraversamento irregolare delle frontiere, compreso il rafforzamento delle operazioni di SAR (Search and Rescue); l’istituzione di strutture di base per consentire alle guardie libiche di organizzare al meglio le loro operazioni SAR, oltre a quelle di sorveglianza e controllo delle frontiere; assistere le autorità libiche a stabilire una regione SAR e a definire delle procedure operative adeguate e infine sviluppare la capacità operativa delle autorità libiche nella sorveglianza e controllo delle frontiere terrestri nel deserto, concentrandosi sulle zone meridionali del paese maggiormente interessate da attraversamenti illegali.

La guardia costiera libica

La zona SAR libica è  gestita dalla Guardia costiera libica,  un corpo formato da milizie armate molto spesso responsabili loro stesse del traffico di esseri umani che coinvolge i migranti. Si tratta di un corpo irregolare e disorganizzato come si vede da quelle poche operazioni di soccorso documentate in cui si denota un approccio veloce e caotico, se non violento e superficiale. Come se non bastasse, la cosiddetta guardia costiera, oltre ad intercettare le persone in mare, le riporta illegalmente in Libia dove vengono riconsegnate ai trafficanti o ai gestori dei centri per migranti, dove le torture e le violazioni sono più che documentate.

Le denunce delle organizzazioni umanitarie

La realtà che ci raggiunge dal Mediterraneo e dalla Libia sembra quindi raccontare una storia diversa. Molte organizzazioni internazionali non governative che operano in mare denunciano da anni le operazioni violente e repressive della guardia costiera libica nei confronti dei migranti. Le immagini che ci mostrano sono forti e non lasciano spazio all’interpretazione. SeaWatch Italia, ad esempio, qualche mese fa ha pubblicato un video in cui una motovedetta libica apre il fuoco e spara verso un gommone pieno di persone in fuga nel Mediterraneo.

“Senza la presenza delle ONG in mare e dei nostri aerei in cielo, non esisterebbero testimonianze delle nefandezze e dei crimini di questa milizia pagata e addestrata dall’Italia e dall’Europa. Grazie al nostro Seabird abbiamo potuto documentare le costanti violazioni che la cosiddetta guardia costiera libica perpetra ai danni delle persone migranti: minacce, violenze, respingimenti illegali, spari. Le autorità italiane dovrebbero impedire che questo accada, non accusare noi ONG di interferire”, si legge nella descrizione del video.

L’accusa è chiara. Quello che l’Italia e l’Europa spacciano per cooperazione, sostegno e protezione delle frontiere, le organizzazioni umanitarie più importanti – come anche ONU e Amnesty International –  definiscono operazioni illegali e infernali. Sono anni ormai  che queste stesse organizzazioni denunciano e rivelano prove di orribili violazioni ai diritti umani sia nel Mediterraneo che nei centri di detenzione libici.

In un rapporto del 2021 di Amnesty International intitolato “Nessuno verrà a cercarti: i ritorni forzati dal mare ai centri di detenzione della Libia“, si fa luce sulla reale sofferenza delle persone intercettate in mare e riportate in Libia che finiscono immediatamente in stato di detenzione arbitraria oltre ad essere sistematicamente sottoposte a torture, violenza sessuale, lavori forzati e altre forme di sfruttamento nella totale impunità. Nel rapporto infatti si evidenzia anche la lunga complicità degli stati europei nel loro continuo rafforzare e assistere la guardia costiera libica nella cattura delle persone in mare e nel loro ritorno forzato in Libia.

La complicità dell’Europa

Nel più recente rapporto 2022-2023 la situazione sembra non cambiare. Ma una considerazione fa riflettere: “gli stati dell’Unione europea hanno aperto le frontiere alle persone in fuga dall’Ucraina dimostrando di essere, in quanto uno dei raggruppamenti più ricchi al mondo, più che in grado di ricevere grandi numeri di persone in cerca di salvezza e di dar loro l’accesso alla salute, all’educazione e all’alloggio. Al contrario, molti di quegli stati hanno chiuso le porte a chi fuggiva dalla guerra e dalla repressione in Siria, Afghanistan e Libia”.  Le risposte dei paesi occidentali all’invasione russa dell’Ucraina mostrano infatti che qualcosa si può fare se c’è la volontà politica di farlo: condanna globale, indagini sui crimini di guerra, frontiere aperte per i rifugiati. Queste dovrebbero essere norme applicabili a tutte le realtà che vedono la violazione dei diritti umani di base.

A cosa serviranno queste motovedette?

Quindi, bisogna chiedersi, a cosa serviranno queste motovedette? Se per il governo italiano queste saranno fondamentali per consentire a Tripoli di arginare gli effetti della migrazione irregolare e per rafforzare la cooperazione con la Libia,  le ONG e altre organizzazioni umanitarie continuano a denunciare un utilizzo violento e controproducente delle imbarcazioni di salvataggio, che mirano semplicemente a intercettare le persone in mare e a riportarle indietro. In questo quadro, UE e Italia procedono con la progressiva delega ai libici e rinunciano allo spiegamento di forze nel Mediterraneo, limitandosi ad una mera sorveglianza aerea, anche se diverse indagini giudiziarie mostrano come l’MRCC di Roma e la Centrale operativa italiana abbiano coordinato più di una volta le operazioni di respingimento della guardia costiera libica.

Anni di politiche protezioniste delle frontiere italiane ed europee hanno contribuito solo a estromettere le navi delle ONG dal Mediterraneo e a finanziare la guardia costiera libica, provando a nascondere la criminalità che sta dietro ai flussi migratori.

Aurora Compagnone

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