La grande emigrazione italiana: quando gli italiani erano i migranti

Oggi, nel pieno delle elezioni politiche e dell’assordante propaganda d’odio, la storia della grande emigrazione italiana sembra essere stata dimenticata. Forse per convenienza, archiviata a favore di argomentazioni più comode, ottime per crogiolarsi in un benessere che pare dovuto alla propria nazionalità. In numerosi programmi elettorali e altrettanti dibattiti politici, chiare sono le parole degli esponenti del centro destra. L’accoglienza va dosata, prescritta a piccole dosi, come sui fogli illustrativi delle medicine; o ancora, va selezionata, scelta, come i campioni dei cosmetici che troviamo più appetibili. Eppure, l’Italia, il Bel paese, è stato un paese di migranti.

Proprio così, essere nati in un paese fortunato, non è altro che un caso, una coincidenza che non prevede alcun merito. Molti, però, lo hanno dimenticato. Anche chi, fra i suoi bis nonni, seppelliti dalla memoria, aveva gente partita con una valigia di cartone.

La grande emigrazione italiana

Tra il 1861 e il 1985 dall’Italia partirono circa 30 milioni di persone. Il sogno, come nei più comuni film, era l’America. In seguito, si raggiungeranno anche mete più vicine in Europa, come il Belgio, la Germania, la Svizzera e la Francia.

L’obiettivo era il medesimo: costruirsi un futuro migliore. Un futuro che in Italia, tra condizioni di assoluta povertà e analfabetismo, non si riusciva a intravedere. Nonostante la fine della dominazione e la conquista della giovanissima e agonizzata Unità d’Italia, i novelli italiani scelsero di lasciarla andare, dopo decenni di triste arretratezza.

Inizialmente a partire era un solo membro della famiglia, generalmente un uomo. Non mancarono però eccezioni, con la partenza di intere famiglie dal Veneto e dal Meridione, dirette in Brasile, soprattutto dopo l’abolizione della schiavitù dal Paese nel 1888.

Le emigrazioni, dunque, interessarono l’Italia intera, da Nord a Sud. Chi partiva dalle regioni del Nord Italia, si imbarcava a Genova o a Le Havre, in Francia; chi, invece, partiva dal Sud Italia, si imbarcava a Napoli. In qualche decennio, intere cittadine italiane si svuotarono dei propri abitanti.

Le assonanze tra presente e passato

La grande emigrazione italiana, così come ogni fenomeno sociale di importanti dimensioni, presenterà anche lati oscuri. Paradossalmente, è con grande facilità che si tende a dimenticare i sapori guasti, i momenti avvilenti, i periodi bui. Gli italiani, infatti,  per lungo tempo a cavallo fra Otto e Novecento, furono bersaglio di profonde discriminazioni, di radicati atteggiamenti razzisti e pregiudizi che, ancora oggi, riecheggiano goliardici.

Il viaggio per raggiungere il Nuovo Mondo era lungo e spesso mortale, soprattutto per i passeggeri della terza classe, costretti in condizioni fortemente precarie. In genere, si dormiva su sacchi imbottiti di paglia, con a disposizione un solo orinatoio ogni cento persone e del pane raffermo come pasto. I più fragili morivano prima di arrivare a destinazione, mentre chi sopravviveva era costretto a nuove difficoltà, che non si esaurivano con la fine del lungo viaggio.

Una volta approdati a New York, si dovevano affrontare i controlli dell’ufficio immigrazione all’isolotto di Ellis Island. Lo scopo era quello di prevenire la diffusione di malattie potenzialmente portate dagli italiani. Un esempio, era il tracoma: un’infezione degli occhi che, una volta contratta, avrebbe portato alla cecità.

Superati i controlli medici, si passava alla visita psico-attitudinale, la quale poteva richiedere anche un’attesa di giorni, solitamente passati in cella; chi, infatti, non veniva considerato idoneo, veniva marchiato con una X sui vestiti, in modo da risultare riconoscibile e, poco dopo, destinato ad essere rimandato indietro.

Integrazione: un percorso sofferto

Una delle sfide maggiori durante la grande emigrazione italiana, fu l’imbocco di un invisibile percorso di integrazione, che continua ancora oggi a rassomigliare una matassa aggrovigliata. La gestione di un gran numero di migranti e i pregiudizi ad essi legati, sono temi tristemente noti.

Gli italiani in America non furono certamente ben visti. Lo stesso presidente Richard Nixon, in una conversazione del 13 febbraio 1973, sosterrà con uno dei propri consiglieri più fidati, John Ehrlichman, come gli italiani fossero un popolo con la testa non proprio ben avvitata, diversi dagli americani per il loro aspetto, odore e gestualità. E, ancora, come non si riuscisse a trovare neanche un solo italiano onesto.

Insomma, una razza bizzarra, né bianca né nera, stirpe di assassini, anarchici e mafiosi. Interessante, per chi volesse approfondire l’argomento, è il libro del giornalista e scrittore italiano Gian Antonio Stella “Quando gli albanesi eravamo noi”, in cui viene smantellata, pezzo dopo pezzo, la patriottica, ma ipocrita idea, degli italiani belli ma poveri, assai diversi dai curdi, siriani e nigeriani che sbarcano oggi sulle nostre coste.

La soluzione più comune adottata dai nostri italiani in America, fu quella della ghettizzazione in quelli ancora oggi riconosciuti come quartieri italiani, una strada che rallentò – tra le molte rinunce – la diffusione dell’inglese tra la comunità e la ricerca del lavoro, in ambito operario e non solo. Basti pensare all’abitudinaria suddivisione per etnia negli annunci lavorativi: prima venivano i bianchi, poi i neri, infine gli italiani. La forte xenofobia presente negli Stati Uniti – così come in altri paesi, si veda la Svizzera – portò molti italiani, nel corso del Novecento, a cambiare nome e cognome, spinti dalla necessità di integrarsi.

Ieri come oggi: indispensabile è la conoscenza

Oggi, a distanza di secoli, la grande emigrazione italiana dimostra come un passato apparentemente lontano, può rivelarsi spaventosamente attuale. Da anni, ormai, in Italia si discute sulla politica migliore da adottare, senza venirne mai a capo: indefiniti aiuti diretti ai paesi d’origine, idee di rimpatrio, richieste di redistribuzione di migranti in tutta Europa.

Indispensabile, ieri come oggi, è la conoscenza. L’impegno nel ricordare le proprie origini, recuperando non solo i momenti di un passato convenientemente glorioso, ma anche le storie di sacrifici e sconfitte. Archiviare un fascicolo così ancorato alla storia italiana, con milioni di parenti lontani che a loro volta sono stati figli di migranti, non risulterebbe solo disdicevole, ma pericoloso. Non solo per chi oggi è il migrante protagonista, ma anche per chi dimentica che i propri zii, non erano solo i ricchi zii d’America.

Angela Piccolomo

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