Il massacro di Dogali è uno dei primissimi frutti amari della tormentata storia coloniale italiana in Africa. Ancora oggi, per una parte dell’opinione pubblica quei 430 soldati travolti dalla carica di 7000 guerrieri abissini, la mattina del 26 gennaio 1887, rappresentano la parte offesa in una ‘gloriosa sconfitta’, alimentata dal reticolo confuso di una memoria storica che per pigrizia e convenienza mescola insieme smacco e rivendicazione, enfasi e recriminazione.
Il 24 gennaio 1887 il Ministro degli Esteri del Regno d’Italia, Di Robilant, liquidava con queste parole le preoccupazioni sollevate dall’opposizione circa la difficile situazione dei rivoltosi nella costituenda Africa italiana: “non attaccare tanta importanza a quattro predoni che possiamo avere fra i piedi in Africa”. Due giorni dopo, il 26 gennaio, 7000 abissini guidati dal Ras Alula assaltavano una colonna di 548 soldati italiani comandata dal Tenente Colonnello Tommaso De Cristoforis decimandola. Inizia e finisce così, nella polvere rossa del deserto eritreo il massacro di Dogali, la prima ‘gloriosa’ disfatta che contrassegna in modo indelebile la tormentata vicenda coloniale italiana in Africa.
In Italia, il massacro di Dogali provocherà un terremoto politico di notevole portata, rallentando persino l’espansione coloniale nel continente nero, iniziata concretamente appena tre anni prima, nel 1882, quando la società di navigazione genovese ‘Rubattino’, con il benestare degli inglesi, vendette allo Stato italiano la baia di Assab, acquistata nel 1869 per 416mila lire.
Ma l’oltraggiosa sconfitta subìta dalle truppe italiane per mano dei guerrieri abissini, solleverà forti critiche anche nel mondo della cultura. Nel suo romanzo ‘Il Piacere’, Gabriele D’Annunzio farà pronunciare al protagonista, Andrea Sperelli, parole sprezzanti per quei “quattrocento bruti morti brutalmente” e per “l’orrore della strage lontana” che “faceva urlare la plebe”.
Persino Giosuè Carducci, sempre pronto a soffiare sul vento dell’eroismo, definirà quell’episodio, il frutto amaro di una “spedizione inconsulta”, declinando l’offerta dell’allora sindaco di Roma di comporre un’ode in occasione dell’inaugurazione del monumento ai caduti di Dogali, tutt’ora presente nella capitale in viale Luigi Einaudi nei pressi delle Terme di Diocleziano.
La premessa al massacro di Dogali
Il massacro di Dogali si colloca nell’orizzonte storico della guerra d’Eritrea e appartiene alla prima fase del colonialismo italiano in Africa. Dopo l’annessione della baia di Assab nel 1882, il Regno d’Italia, sotto la spinta del leader della Sinistra storica e Presidente del Consiglio, Agostino Depretis, aveva iniziato a occupare i territori nel Corno d’Africa, per ottenere due avamposti vicini al canale di Suez; ma le azioni di conquista italiane erano costantemente ostacolate dagli attacchi dell’Impero d’Etiopia e del Sudan mahdista.
In quanto fenomeno sviluppatosi secondo una vera e propria ideologia, avente dei riconoscibili, seppur poco puntuali e sistematici fondamenti teorici, la parabola coloniale italiana ha rappresentato, sin dalla sua comparsa, uno dei principali vettori di affermazione politica del Regno d’Italia sullo scacchiere internazionale.
Tra il 1885 e il 1887, gli italiani iniziarono una lenta penetrazione nell’entroterra eritreo, e dopo aver occupato il porto di Massaua, presero possesso del villaggio di Saati, situato a 28 chilometri dalla costa. E’ in questo frangente che gli interessi del Regno d’Italia entrano definitivamente in contrasto con quelli del confinante Impero etiope che da tempo bramava uno sbocco sul mar Rosso.
Le tensioni tra i due contendenti esplodono il 25 gennaio 1887, quando Ras Alula, fedelissimo del Negus etiope Giovanni IV, alla testa di un esercito di 25mila guerrieri abissini attaccò il forte italiano di Saati, presidiato da appena 700 uomini. I soldati italiani riuscirono a resistere alla prima ondata di attacchi, combattendo per quattro ore e respingendo il nemico, ma rimasero ben presto a corto di vettovaglie e munizionamento.
Il comandante del forte di Saati, Maggiore Giovanni Battista Boretti, vista la situazione disperata si decise a chiedere aiuto al vicino forte italiano di Moncullo. La mattina del 26 gennaio una colonna di supporto composta da 548 soldati partì alla volta di Saati ma venne intercettata dagli etiopi nei pressi di Dogali. Inizialmente, gli italiani provarono a riparare su un’ altura ma fu pressoché impossibile resistere alla carica dei 7000 guerrieri. Per il regio esercito il bilancio del massacro di Dogali fu impietoso: morirono 430 soldati tra cui 23 ufficiali.
La mistica della ‘gloriosa’ disfatta
Dopo Dogali, gli italiani ripresero il controllo del forte di Saati nel marzo 1887 e la “missione” civilizzatrice in Africa, per “sbarbarire” i selvaggi e portare loro il ‘progresso’ e la ‘civiltà’, andò avanti fino al 1896 quando con la sconfitta di Adua, l’imperialismo italiano in Etiopia subì una pesante battuta d’arresto.
Tuttavia, sul massacro di Dogali si costruì una vera e propria leggenda che riuscì a occultare sin dal primo momento molte delle “leggerezze” commesse sul piano militare e politico dagli italiani. Il ricordo, ad esempio, del carattere deciso e impetuoso del Tenente Colonnello De Cristoforis, disposto a qualsiasi sacrificio pur di salvare la colonna militare, stride abbastanza con la sottovalutazione delle risorse e delle capacità degli Abissini dimostrata da tutto l’alto comando italiano, convinto, più per preconcetto culturale che per reale cognizione, dell’indiscussa superiorità delle forze coloniali rispetto a quelle abissine. Un pregiudizio, questo, che porterà i generali italiani a disperdere in un territorio tutt’alto che pacificato uno sparuto numero di uomini (circa 2700) esponendoli al pericolo di rappresaglie nemiche.
Paradossalmente, però, la cultura del gesto eroico che ha permeato sin dall’inizio l’esperienza coloniale italiana, richiamandosi a una tradizione risorgimentale, imperniata anch’essa sul concetto di liberazione dei popoli oppressi, riuscirà a polarizzare l’attenzione sul sacrificio dei 500 italiani caduti ‘ingiustamente’ la mattina del 26 gennaio 1887 a Dogali. Ma se da un lato, l’opinione pubblica proietterà sulla battaglia, il convincimento di una ‘gloriosa’ sconfitta da celebrare in patria; dall’altro, vi scorgerà la rappresentazione plastica della superficialità e dell’imperizia dei comandi militari italiani.
Il binomio ‘colonizzazione-popolamento’, elevato a potenza da concetti quali ‘missione civilizzatrice’ e ‘imperialismo informale‘, renderà plausibile l’ossimoro di una ‘gloriosa’ sconfitta. E così, proprio come un fiume carsico che dopo aver percorso centinaia di chilometri nelle viscere della terra sgorga bruscamente in superficie, la coscienza coloniale italiana, ferita nell’orgoglio, farà convergere sul massacro di Dogali, l’idea-forza di una disfatta subìta dai buoni e civili colonialisti per mano dei rozzi e barbari abissini.
La retorica trionfante costruita intorno al massacro di Dogali reggerà almeno per mezzo secolo, fino a quando la propaganda fascista la riadatterà per le proprie esigenze di regime, nel corso delle campagne di Libia e di Etiopia. Negli anni della Seconda guerra mondiale, il sacrificio di De Cristoforis e dei suoi uomini si unirà ad altri due luoghi della memoria militare italiana in Africa: la battaglia di Giarabub combattuta nel 1940 e quella di El Alamein nel 1942.
E, ironia della sorte, quando nel 1947 l’Italia, sconfitta dagli Alleati, dovrà abbandonare l’Africa e tutte le sue colonie, quella porzione di territorio colonizzata dagli italiani, che era diventata nel frattempo l’Eritrea, sarà assegnata dalle Nazioni Unite niente meno che all’Etiopia.
Ma i nazionalisti eritrei interpreteranno la decisione delle potenze vincitrici come una violazione della loro ritrovata sovranità, e decideranno di fondare le proprie rivendicazioni ‘patriottiche’ a partire da una rielaborazione di quel passato coloniale costruito proprio dagli italiani sessant’anni prima.
Tommaso Di Caprio