Pensando al Giappone, immaginiamo ciliegi in fiore. E sotto questi alberi, una geisha con un ombrellino e il suo bel kimono.
Noi occidentali associamo questa figura al culto del corpo femminile. E, spesso, alla sua mercificazione. In realtà, la geisha ha un ruolo totalmente diverso, che ha a che vedere soprattutto con la cultura e con l’arte della bellezza. Una bellezza trasmessa per mezzo del corpo, ma non solo.
Sin dai tempi della
Eppure, è proprio il la parola geisha a parlarci della relazione di queste donne con l’arte, dal momento che questo sostantivo è formato da due kanji che parlano chiaro: “gei” (arte) e “sha” (persona).
Questa figura affascinante trova la sua origine nel VII secolo, quando a corte si riunivano le saburuko, donne specializzate nell’arte dell’intrattenimento. Le saburuko andavano a sostituire una figura già esistente, quella degli hokan, uomini che allietavano i nobili con musica e spettacoli. Pochi secoli dopo, le saburuko vennero a loro volta soppiantate dalle juuko, delle prostitute d’alto bordo. Anche da qui nasce l’impasse che ci conduce all’associazione geisha – prostituta.
Le juuko si contrappongono alle geisha proprio per il tipo di intrattenimento che propongono.
Durante il periodo Edo, precisamente nel 1617, lo shogun decise di legalizzare la prostituzione, ma le geisha non erano assolutamente autorizzate ad acquistare una licenza per intraprendere quel tipo di professione. E proprio allora videro la luce dei quartieri destinati proprio alle sale da the e dalle okija, case dove le giovani ragazze andavano a vivere e studiare per diventare geisha. Il nome di questi quartieri lascia intendere tutta la magia e lo splendore del Giappone: hanamachi, città dei fiori.
Uno splendore che viene importato in Europa grazie all’apertura dei porti giapponesi tramite le rappresentazioni di grandi artisti, che influenza il mondo dell’arte occidentale a tutto tondo: da Puccini a Van Gogh. L’occidente impazzisce per l’oriente. E, spesso, lo fraintende. Come, appunto, quando incontra le geisha.
Come abbiamo detto, infatti, queste donne erano artiste, e non donne di facili costumi. La loro formazione iniziava quando erano piccolissime, e lavoravano come domestiche per apprendere l’umiltà e la necessità di lavorare sodo. Da ragazzine frequentavano la scuola dell’hanamachi. Lì imparavano a suonare gli strumenti tradizionali, a danzare, a scrivere elegantemente, a fare composizioni floreali e venivano introdotte al rito del the. Dopo un esame di danza, abbandonavano la vita da domestiche per diventare Maiko, parola composta da due kanji che significa “fanciulla danzante
Durante le varie fasi della vita, i modi di vestirsi e truccarsi cambiavano.
Se le maiko indossavano kimono dalle lunghe maniche e dai colori sgargianti, una volta geisha prediligevano maniche più corte e sobrietà. Se da giovani dipingevano il volto di bianco perché esaltasse alla luce delle candele, a trent’anni non usavano più colorare il proprio viso, in un processo graduale.
Donne libere, spesso si legavano ai danna, uomini che le sostenevano economicamente, in cambio della loro arte. Niente a che vedere con le Oiran, cortigiane di lusso che si distinguono dalle geisha per il modo di portare l’obi ovvero il fiocco del kimono. Portato dalle oiran sul davanti anziché sul dietro per essere slacciato e intrecciato facilmente e velocemente.
Le geisha esistono ancora oggi, ma non è facile incontrarle. E se succede, talvolta, sono più attrazione turistica che autentiche. Iniziano il loro percorso di formazione dopo le scuole dell’obbligo e vivono ancora nelle okiya con la propria maestra ( okaa-san, madre). La loro professione è riconosciuta ufficialmente, e ancora oggi sono vincolate a strette regole sul modo di vivere e di vestire.
Se è vero che il Giappone, dall’apertura forzata dei suoi porti ha iniziato a confrontarsi con il modello occidentale e, in gran parte ad abbracciarlo, è altrettanto vero che non ha totalmente smarrito la sua identità e le radici di questo paese che sorge sul dorso di un drago in perenne movimento. Speriamo che questo non succeda mai.
Sofia Dora Chilleri