È indubbio che nei primi anni 60 i primi cantautori si siano ispirati alla letteratura francese per comporre i loro testi musicali.
Un nuovo tipo di artista
In quegli anni stava nascendo una nuova figura, un nuovo artista. L’idea dei discografici era di unire le suggestioni provenienti dalla canzone d’autore francese (gli chansonnier) e statunitense (i folksinger) con ciò che negli ultimi anni la canzone d’autore italiana era andata acquisendo grazie alle innovazioni portate da Domenico Modugno.
Nasceva, così, un tipo di artista nuovo che doveva divenire un tutt’uno con le proprie canzoni, delle quali doveva essere autore e interprete. Una confezione musicale in linea con le tendenze del momento andava così a coniugarsi con dei testi colti, lirici, ricchi di citazioni letterarie e di riferimenti a temi del tempo presente.
I nouveaux chansonniers
Il primo indizio di questa francesità risiede proprio nella nuova denominazione di questa élite degli anni ’60. Sono gli chansonnier, una parola francese, che si caricava di un significato diverso da quello che aveva in Francia. “Chansonnier” si riferiva ai poeti medievali e ai trovatori che si dedicavano alla canzone, a cantanti del passato. La «francesità» del termine connotava probabilmente qualcosa di raffinato, estetizzante, a volte di licenzioso, a volte impegnato.
Gli “chansonniers” nascono appunto intorno agli anni ’60, con la nuova stagione musicale inaugurata da Domenico Modugno. Si allineano a questo filone anche a Gino Paoli, Luigi Tenco e Fabrizio De André. Questi artisti portarono in Italia sonorità e temi nuovi.
Gino Paoli, tra esistenzialismo e anticonformismo
Cantautori come Gino Paoli rendono evidente l’influenza della letteratura francese in modo provocatorio e ostentando una francesità ricercata. Questo è chiaro ne “La gatta”, il cui testo ha una chiara somiglianza con «Auprès de mon arbre» di Brassens. Questo brano, tra l’altro, è quello che contribuisce maggiormente a creare l’immagine di Paoli, associata a personaggi bohèmien, anticonformisti e esistenzialisti, degli «intellettuali della canzone». Allo stesso tempo grazie a Paoli si popolarizzerà il fenomeno nascente dei cantautori.
Il fenomeno De André
De André esordisce discograficamente in leggero ritardo rispetto ai primissimi cantautori, ma recupera in fretta a livello di risonanza mediatica. Dopo l’esordio con Nuvole barocche (1958) e il primo importante successo con La canzone di Marinella (1962) ci si avvia verso una chiara ispirazione francese.
La ballata del Miché ricorda lo stile delle composizioni di Brassens, anche per il particolare arrangiamento «alla francese»; altri hanno voluto scorgere nel testo rimembranze delle canzoni della Vanoni e di Luigi Tenco. Quello che sicuramente emerge è che Fabrizio in realtà ha uno stile personale, che «sembra» imitare quello di Brecht, di Brassens ma si stacca in realtà da tutti per qualcosa di assolutamente inconfondibile e originale.
Una francesità antica
La successiva Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers (1963) è un esempio al limite dello stereotipo francese di cui abbiamo detto; riprende immagini della «francesità» già dal titolo, e gioca su atmosfere «medievaleggianti/rinascimentali» attraverso svariate sineddochi.
La «francesità» di De André, dunque, finisce con il tenere insieme una serie di riferimenti alla cultura transalpina piuttosto variegati e indifferenziati, in cui un riferimento a Baudelaire (Per i tuoi larghi occhi, 1965) può essere associato ai trovatori.
Nel suo concept-album Tutti morimmo a stento (1968), La ballata degli impiccati si ispira all’omonimo epitaffio (1462) di François Villon, dove segnatamente negli ultimi due versi si rispecchia proprio la «filosofia» di De André, là dove Villon dice: «Uomini, non schernite il nostro stato ma Dio pregate che ci voglia assolvere».
Le foto promozionali di De André in questi anni puntano su un medesimo immaginario, che differisce da quello «esistenzialista» di Paoli, e punta decisamente su un’iconografia «medievale» e «trobadorica». E proprio De André in persona diceva:
Adoro tutto ciò che è francese, credo di avere dentro una polla di vecchio buon maledettismo francese; già, Villon, come faccio a non tirarlo in ballo? E se vogliamo scendere, un po’ di Baudelaire e Rimbaud.