Robert Mapplethorpe nasce a New York nel 1946, terzo di sei fratelli.
La sua famiglia è di origine irlandese, profondamente cattolica.
Da ragazzo, Mapplethorpe cerca di seguire gli ideali con i quali è cresciuto, e per compiacere il padre si iscrive persino ad un’associazione paramilitare, la National Honor Society of Pershing Rifles. Prova a rimanere sui binari.
Ma la New York degli anni ’60 è in fermento.
E colui che diventerà uno dei più importanti nomi della fotografia del ‘900 non può non ascoltarne il richiamo rivoluzionario. Sono gli anni della guerra in Vietnam, dell’emancipazione femminile, delle rivolte studentesche.
Sono anche gli anni delle nuove droghe sintetiche, delle quali Mapplethorpe subisce la fascinazione, diventandone consumatore abituale.
Artista poliedrico, non si avvicina subito alla fotografia, ma cerca di esplorare il mondo delle arti visive a 360 gradi, facendo di se stesso e dei suoi spazi una specie di opera d’arte vivente. Attento al proprio stile, si dedica con dedizione al disegno, ai collage, alla decorazione dei suoi spazi privati.
Ne parla a lungo nel suo bellissimo libro “Just Kids” Patty Smith, che lo aveva incontrato per puro caso nel 1967.
Appena arrivata a New York senza un soldo e con la sola volontà di dare libera espressione alle sue capacità creative e alle sue potenzialità artistiche, ne diventa presto la compagna e l’amica di una vita intera. La crescita artistica di Robert Mapplethorpe ci viene descritta con grande sensibilità dalla cantante americana. È bellissimo seguirne il fluire, pagina dopo pagina. È evidente che Mapplethorpe guardava nel suo profondo, per cercare di tradurre il suo universo interiore in quello dell’estetica del mondo esteriore. Senza tralasciare l’oscurità, l’alchimia, la magia, “apriva porte e le richiudeva”, rendeva accessibili “mondi solitari e pericolosi, che preannunciavano libertà, estati, liberazione”. Amante dell’arte, cercava di capirne le forme. Non amava la scultura, che percepiva come un linguaggio obsoleto, ma non poteva non amare “I Prigioni” di Michelangelo, la loro straordinaria incompletezza e segreta parzialità del tutto.
Negli anni ’70, con l’accesso esclusivo all’intera collezione fotografiche del Moma, si compie l’incontro definitivo con la fotografia.
Robert Mapplethorpe inizia a scattare Polaroid, poi dimenticate fino a dopo la sua morte, e trova un nuovo linguaggio espressivo. Il suo. Un linguaggio fatto di chiari scuri, di corpi, di staticità e dinamismo, di grida e rumorosi silenzi.
La svolta vera e propria la si ha con The X Portfolio.
The X Portfolio è una serie di fotografie a tema omoerotico e sadomaso, con tanto di ritratti e autoscatti. Il corpo umano viene mostrato nella sua più completa nudità, intrappolato da strumenti di sofferenza e piacere, nella sua crudità. Nei suoi scatti vengono infranti tutti i tabù della sessualità, mostrata senza veli, senza peli sulla lingua, con totale autenticità. È con l’opera di Robert Mapplethorpe che finalmente cade la barriera tra pornografia ed arte. E ciò che non si poteva discutere non solo viene affermato senza timore, ma addirittura esposto sulle pareti dei musei.
Nella fotografia di Mapplethorpe, la sessualità non è una prerogativa umana: è il soggetto anche di scatti botanici. I fiori, infatti, sono di fatto gli organi sessuali delle piante. Anche in questo caso gli scatti sono intrisi di sensualità, senza rifuggire l’eleganza e il gusto estetico classicheggiante.
Vissuto d’arte e d’amore, Robert muore di AIDS nel 1989.
I suoi scatti, tuttavia, continuano a fare scalpore, a sfidare il mondo benpensante sposando la bellezza del bianco e nero, del corpo umano, dell’oscurità.
Sofia Dora Chilleri