Samuel Cartwright, medico statunitense, nel 1851 pubblicava uno studio sulla “drapetomania”, una fantomatica malattia mentale esclusiva degli afro-americani che portava gli schiavi a voler essere liberi.
Samuel Cartwright e la “drapetomania“
Samuel Adolphus Cartwright nasce in Virginia nel novembre del 1793 da una famiglia benestante ma non così ricca da possedere le grandi piantagioni di cotone caratteristiche di quegli stati che da lì a qualche anno sarebbero divenuti parte della Confederazione. Diventato medico inizia a praticare in Mississippi e poi in Louisiana, rimanendo, allo scoppio della Guerra Civile, negli stati confederati facendo parte dell’esercito sudista in qualità di membro delle unità di supporto medico ai soldati. Morirà nel 1863 presso la città di Jackson, in Mississippi, probabilmente per un infarto, anche se non viene esclusa un’infezione derivata dalle scarse condizioni igieniche dovute al conflitto.
Anche se Cartwright è stato per la maggior parte del tempo un personaggio del tutto ininfluente nel lungo corso della storia, è riuscito comunque a imprimere il suo nome sulle pagine dei libri grazie alla “scoperta” di una nuova malattia mentale esclusiva degli afro-americani. Nel maggio 1851 il medico della Virginia pubblica sul New Orleans Medical and Surgical Journal un saggio intitolato Relazione sulle malattie e le peculiarità fisiche della razza negra, nel quale identifica, o meglio inventa, la “drapetomania“. Il nome deriva dall’unione di due termini greci significanti “fuggitivo” e “pazzia”, ed era, come scrive Cartwright:
una malattia sconosciuta alla sanità dell’epoca, benché il suo sintomo, ossia il sottrarsi al lavoro, è ben noto sia ai nostri piantatori e braccianti, come lo era nell’antica Grecia. Alla parola “fuggiasco” ho aggiunto anche il termine “pazzia” per identificare la patologia mentale che induce lo schiavo alla fuga.
Per Cartwright infatti non ha alcun senso che lo schiavo voglia fuggire dal padrone, in quanto è scritto nel Pentateuco, i 5 libri iniziali che compongono la Bibbia, che lo schiavo deve essere sottomesso a colui che lo possiede. Secondo lui il Creatore ha creato la “razza negra” proprio per essere assoggettata, infatti evidenzia come le ginocchia degli afro-americani siano più inclini a adatte a flettersi e a piegarsi rispetto a quelle di “qualsiasi altro tipo di essere umano”. Lo “schiavo nero” è quindi sottomesso per natura, e per legge divina, quindi non dovrebbe nutrire alcun desiderio di scappare, tuttavia capita non di rado (e per noi non è una grande scoperta) che il bracciante scappi dalla tenuta. Cartwright quindi si interroga su cosa faccia nascere nello schiavo questa voglia di fuggire. Il risultato dei suoi pseudo-studi è semplice: se il padrone si oppone alla volontà di Dio facendo dello schiavo un amico, un suo pari o trattandolo in modo diverso dalla sua “condizione naturale di inginocchiato sottomesso” (ma anche trattandolo con crudeltà o punendolo con troppa ira), questi sarà indotto alla fuga. Se invece “l’uomo bianco lo tiene come gli hanno insegnato le Scritture”, sottomesso, trattandolo cordialmente ma senza condiscendenza, “lo schiavo negro rimarrà ammaliato e non fuggirà“. La teoria della “drapetomania” riscosse un certo successo negli ambienti schiavisti dei confederati ma ebbe risonanza anche negli stati abolizionisti dell’Unione, che rimasero alquanto dubbiosi in merito all’esistenza di una tale patologia. Cartwright prescrisse anche i rimedi per i pazienti che ne erano affetti: “una violenta dose di frustate” come misura preventiva e come rimedio alla malattia i “la rimozione dei due alluci”, in modo da rendere impossibile la corsa.
La “malattia” è ovviamente inventata, non c’è alcun fondamento scientifico dietro a questa scoperta, ma all’epoca e nel contesto in cui è stata “scoperta” la spiegazione poteva avere una sua logica; ricordiamo che era l’epoca della “Guerra di Secessione” e i pregiudizi razziali e le convinzioni dettate dal puritanesimo erano ancora molto forti, per cui l’ignoranza della gente doveva ancora essere dissipata dal lume della ragione.
La Dysaesthesia aethiopica
Cartwright non si fermò alla “drapetomania”, ma osservando la realtà, senza troppo metodo scientifico, formulò altre teorie. In primis scrisse che i neri avevano più problemi ai polmoni rispetto ai bianchi e che costringerli a lavorare nei campi fosse un modo per rivitalizzare il sangue e giovare alla loro condizione. Teorizzò poi l’esistenza di un disagio psichiatrico che causava pigrizia e malumore tra gli schiavi: la “Dysaesthesia aethiopica“. Anche questa “malattia” oggi non è considerata tale, ma come un esempio di pseudoscienza, che non trova riscontri nella realtà. Come per la teoria precedente, anche questa era esclusiva degli afro-americani ed era caratterizzata da una parziale insensibilità della pelle e dall’essere “ebeti nelle facoltà intellettualIi“; suggeriva di curarla così:
Il mezzo migliore per stimolare la pelle è, in primo luogo, far lavare bene il paziente con acqua tiepida e sapone; poi, ungerlo tutto con olio e schiaffeggiare l’olio con un largo cinturino di cuoio; quindi sottoporre il paziente a qualche tipo di duro lavoro alla luce del sole.
In sostanza l’idea del medico era di far lavorare nei campi gli schiavi dopo averli unti e frustati per bene. Credo sia inutile specificare che la fustigazione non fosse tanto la cura per la “patologia”, quanto la causa del malumore e della pelle insensibile. Sempre secondo Cartwright, questa fantomatica “malattia” affliggeva, guarda caso, tutti “quei neri che non hanno una persona bianca che si prenda cura di loro”. Sostanzialmente da buon schiavista quale era si limitava a legittimare una pratica portata avanti da tempo, infischiandone della salute di una “razza fatta da Dio per essere sottomessa all’uomo bianco”. Oggi il problema della schiavitù nelle piantagioni della Confederazione è storia passata, ma purtroppo non mancano i nostalgici di quei tempi e delle “teorie” che spiegano come esista una razza inferiore.