Di Carlo Nesti
Chiunque si aspetterebbe che non sia un mega-imprenditore a lanciare il suo grido di allarme, nel momento in cui la democrazia del calcio viene ferita a morte dalla pandemia. E invece, tocca al presidente della maggiore società italiana, la Juventus, scrivere un articolo carico di legittimo pessimismo.
Andrea Agnelli sottolinea come i problemi economici, legati al coronavirus, abbiano sferrato un colpo micidiale al divario fra club grandi, e club medio-piccoli, distanziando ulteriormente vertici e base del movimento sportivo.
“Gli ultimi saranno i primi”, come si sa, è una verità evangelica, che rimanda più che mai all’Aldilà la meravigliosa giustizia divina. E nella microdimensione non del mondo globalizzato, ma del mondo del pallone, i “miracoli” sono molto datati.
In campo nazionale, ci fu un tempo in cui il Cagliari nel 1970, il Verona nel 1988, e la Sampdoria nel 1991 vinsero lo scudetto. In ambito internazionale, ci fu un tempo in cui la Steaua Bucarest nel 1986 vinse la Coppa dei Campioni, e in cui il Leicester nel 2016 vinse il campionato inglese.
Andrea Agnelli sostiene che si è creata una crepa alla base della piramide:
“I dilettanti non giocano quasi più, i giovani non si avvicinano allo sport, anche perché la nuova generazione “Z” ha valori, e interessi, molto diversi da chi l’ha preceduta, e i consumatori devono selezionare necessariamente più di prima”.
In tanti ritengono che quello del dirigente sia un modo elegante per arrivare alla Superlega europea, che ridurrebbe a puro corollario i campionati nazionali, concentrando l’elite in un torneo, nel quale ci sia posto unicamente per Bayern Monaco, Barcellona, Manchester City, Manchester United, Real Madrid, e simili.
Può darsi, ma sta di fatto che su uno sport, che già per conto proprio proponeva solo palliativi, per evitare la definitiva spaccatura, è piovuta la tempesta del Covid 19, una variabile impazzita assolutamente imprevedibile. E indietro, purtroppo, non si torna.