La deindividuazione è uno dei pericoli più grandi per l’uomo.
Ma vediamo di cosa si tratta.
Il fenomeno spiegato dalla psicologia
La deindividuazione – nota anche come deindividualizzazione – è un concetto della psicologia sociale e della sociologia introdotto dall’antropologo e psicologo francese Gustave Le Bon. E ripreso poi da Philip G. Zimbardo, a seguito della realizzazione dell’ esperimento carcerario di Stanford. Uno dei più celebri della storia, volto ad indagare il comportamento umano in una società in cui gli individui sono definiti soltanto dal gruppo di appartenenza.
Con il termine deindividuazione si intende la perdita di autoconsapevolezza e autocontrollo che si sperimenta in determinate situazioni nelle quali l’individuo si trova ad agire all’interno di dinamiche sociali e di gruppo.
Perchè può diventare pericolosa?
Ce lo spiega sempre Zimbardo. La perdita di controllo della mente sui comportamenti porterebbe l’individuo a mettere in atto azioni con fortissime connotazioni negative.
La riduzione della coscienza dei singoli, infatti, può sfociare nella sospensione dei valori morali personali. Si può addirittura arrivare a sentirsi invisibili, perché completamente assorbiti e protetti dal gruppo.
Ecco perchè spesso la deindividuazione può causare aggressività, crudeltà, e ingiustizia.
Pensiamo, ad esempio, al caso degli stadi. Nei casi più estremi, questo meccanismo è accompagnato dall’affermarsi di codici e valori che formano l’identità del gruppo, ma annientano quella degli individui. Come raccontano alcuni episodi di cronaca, può succedere che un branco di individui si scagli contro una persona sola.
La deindividuazione nella storia
Il modello della deindividuazione è stato utilizzato per spiegare l’emergere di comportamenti aggressivi in un’ampia gamma di situazioni di interazione sociale.
Tra cui le note vicende accadute nei campi di concentramento nazisti durante la Shoah,
Le condizioni che determinano la perdita di controllo tipica del fenomeno
Philip Zimbardo ne ha enumerate dieci.
La prima è l’anonimato. Tutti si sentono più “al sicuro” se nessuno conosce la loro identità.
La seconda è ovviamente la responsabilità condivisa o diffusa, con conseguente perdita del senso di responsabilità individuale.
La terza è l’azione in gruppo. In gruppo ci si sente sempre più forti, meno esposti a pericoli.
La quarta è l’alterazione della prospettiva temporale.
La quinta è l’arousal. E cioè una condizione temporanea del sistema nervoso, in risposta ad uno stimolo significativo e di intensità variabile, di un generale stato di eccitazione, caratterizzato da un maggiore stato attentivo – cognitivo di vigilanza e di pronta reazione agli stimoli esterni.
La sesta è il sovraccarico di stimoli sensoriali, visivi oppure uditivi.
La settima è il coinvolgimento fisico nell’azione.
L’ottava è la prevalenza di feedback affettivo – propriocettivi.
La nona è l’agire in situazioni nuove, non prevedibili, oppure non strutturate.
La decima è l’alterazione dello stato di coscienza dovuto all’assunzione di alcol o droghe.
Ecco perchè la deindividuazione è uno dei pericoli più grandi per l’uomo. Sentirsi parte di un gruppo può essere davvero bello. Ma se il gruppo è formato da individui “non sani”?
Anna Gaia Cavallo