La dea Artemide: una divinità dall’ira cruenta e vendicativa

La dea Artemide su un cratere

Nel pantheon greco, la dea Artemide è patrona della caccia e di una femminilità decisamente anticonvenzionale. Che si esprime, tra l’altro, anche in una sanguinaria sete di vendetta contro chiunque si attiri la sua ira.

Sorella di Apollo e per questo spesso identificata con la luna, la dea Artemide nell’antica Grecia era protagonista di un culto complesso e stratificato. Divinità schiva sovrana dei boschi, amava circondarsi di ninfe (motivo per cui il suo culto aveva valenza omoerotica femminile) e vivere nascosta. Non bisogna pensarla, tuttavia, come una entità pacifica e remissiva. Quando occorreva, infatti, la dea Artemide scendeva in battaglia con foga. E se il suo onore o quello delle sue ninfe veniva macchiato da qualche incauto mortale, o perfino da un’altra divinità, la sua vendetta aveva conseguenze tremende.




La dea Artemide: una fanciulla ambiziosa, libera e feroce

Frutto dell’unione tra Zeus e Leto, fin dalla nascita la dea Artemide non ebbe vita facile. La dea Era, legittima moglie di Zeus, inferocita per l’adulterio commesso dal marito, aveva tutte le intenzioni di nuocere a Leto. Secondo quanto narra il poeta Esiodo nella Teogonia, Era maledisse la rivale, rendendole pressoché impossibile trovare un luogo sicuro dove partorire. Quando però Leto ci riuscì, stabilendosi sull’isola fluttuante di Delo, Era arrivò a rapire Ilizia, dea del parto, rilasciandola solo su insistenza degli altri Dei. Così Leto poté partorire Artemide, che poi la aiutò a dare alla luce il suo gemello Apollo. I gemelli, tuttavia, non poterono perdere molto tempo ad ambientarsi: subito, infatti, furono costretti a sconfiggere il serpente Pitone, ultima minaccia mandata da Era.

Sopravvissuta alle insidie della matrigna, il poeta Callimaco racconta che a soli tre anni d’età la dea Artemide seppe ottenere esattamente ciò che voleva. Negli Inni, infatti, si legge che Artemide, già fanciulla grazie ai prodigi del sangue divino, sedette sulle ginocchia di suo padre Zeus e lo pregò. Ciò che voleva era semplice: una libertà e un’autorità più grande di qualunque altra fanciulla. Al re degli dei domandò che la facesse sovrana dei monti e delle foreste; di città, ne avesse quante lui avrebbe voluto dedicarle, ma lei sarebbe vissuta nella natura. Gli chiese di essere nota con tanti nomi quanti ne aveva il gemello Apollo. Volle un arco d’argento forgiato dai Ciclopi, letale, per andare a caccia. E uno stuolo di ninfe scelte tra le Oceanine e le Amnisie, per assisterla come ancelle e compagne. Infine, chiese di rimanere per sempre vergine. Affinché né la sua libertà né il suo cuore fossero mai sottoposte al volere di un uomo.

Una dea ostile agli uomini

Lasciato l’Olimpo, la dea Artemide si ritirò con le sue ninfe nei boschi, dove cacciava e celebrava i riti relativi ai cicli della natura. Nelle città a lei dedicate la dea si recava raramente, per soprintendere alle strade e ai porti, dei quali il padre l’aveva nominata protettrice. Il suo essere schiva, tuttavia, non salvò numerosi uomini e semidei dalle sue vendette, alcune delle quali particolarmente crudeli. Tanto che alcuni culti la identificarono con Ecate, dea della morte e dell’oscurità.

L’esempio più famoso è quello di Atteone, principe tebano che ebbe l’ardire di restare a fissarla mentre si bagnava in un ruscello. Il silenzio era profondo in quella vallata ai piedi del monte Citerone, così come la pace della dea. Perciò, quando lo schiocco di un ramo spezzato tradì la sua presenza, la sorte di Atteone fu segnata. La dea Artemide, gettandogli addosso dell’acqua, mutò il principe in un cervo. Quando la muta di cani che Atteone aveva portato con sé per la caccia lo vide, il principe finì sbranato. Va detto, però, che in una versione del mito (Igino, Fabula) la vendetta era giunta solo quando Artemide aveva sentito Atteone vantarsi di averla contemplata nuda.

Meno nota della vicenda di Atteone, anche perché non ne è pervenuta testimonianza completa, è quella di Siproite. L’eroe cretese, tuttavia, non fu mutato in cervo, ma in una donna, per essersi vantato di aver visto nuda la dea Artemide durante il bagno.

A pagare a caro prezzo le proprie vanterie, avendo nominato il nome della dea Artemide invano, fu anche Agamennone. Il re di Micene, infatti, dopo una battuta di caccia particolarmente fortunata si era detto un cacciatore superiore ad Artemide. Purtroppo per lui, la dea lo aveva sentito. E all’alba della partenza della spedizione greca verso Troia aveva mandato persistenti venti avversi, che sarebbero stati placati solo con un sacrificio umano. La dea richiedeva nientemeno che Ifigenia, la figlia del re. La fanciulla alla fine sopravvisse, salvata da Artemide e portata in Tauride come sacerdotessa. Agamennone no: sacrificandola, si condannò a morte per mano della moglie Clitennestra al ritorno dalla guerra di Troia.

Le vendette contro i semidei…

Del resto, la dea Artemide non riservava le proprie ire ai soli mortali.

Ne sapeva qualcosa, ad esempio, il gigante Tizio. Costui, fomentato da Era, tentò di violentare Leto mentre si trovava con Artemide in un boschetto sacro presso il tempio di Delfi. Allertati dalle grida della madre, Apollo e Artemide arrivarono e uccisero il gigante con un nugolo di frecce. Pur essendo suo padre, Zeus ritenne quell’assassinio un atto di giustizi e gettò il fratellastro di Artemide e Apollo nel Tartaro. Qui gli toccò un supplizio analogo a quello di Prometeo: incatenato a una roccia, un’aquila gli divorava il fegato che eternamente si riformava. Facendogli provare un dolore lancinante.

Ne fecero le spese anche i giganti Oto ed Efialte, che scalarono l’Olimpo per violentarla, arrivando a catturare e segregare Ares per oltre un anno. La dea Artemide li batté con la propria scaltrezza. Tramutatasi in una cerva, corse velocissima in mezzo a loro, evitando le lance che i due scagliarono simultaneamente. Il risultato fu che i due empi finirono per infilzarsi a vicenda.

… e contro gli Dei

La più aspra contesa della dea Artemide, però, era (non a caso, considerata la sua scelta di vita libera e solitaria) con Afrodite. Infatti, la dea dell’amore aveva provocato la morte di Ippolito, un giovane che Artemide benvoleva per la sua riservatezza e le sue doti di cacciatore. La dea, allora, scatenò le ire di un possente cinghiale, mandandolo a uccidere Adone, che Afrodite amava.

Contro Afrodite, sia pure indirettamente, la dea Artemide agì del resto anche facendo morire Orione, l’amato della dea Eos. Per vendicarsi di lei, o perché Orione aveva tentato di insidiare le Pleiadi, Artemide mandò contro di lui uno scorpione velenosissimo. Per questo servigio reso alla dea, lo scorpione fu tramutato in una costellazione. Orione stesso subì la stessa sorte per opera della dea che lo amava, fuggendo per sempre nel cielo dalla costellazione dello scorpione.

Una dea ostile alle donne

Dal ritratto tratteggiato, ci si potrebbe aspettare che la dea Artemide fosse particolarmente favorevole alle donne. In verità, la sua sete di vendetta non risparmiava neppure il genere femminile. Si pensi, per esempio, a Chione, una fanciulla che si stava vantando di essere più bella della dea. La sventurata non fece nemmeno in tempo a terminare la frase che già il suo cuore era squarciato da un dardo di Artemide.

Tra gli esempi più lampanti c’è quello di Niobe, moglie del re di Tebe Anfione. La regina, infatti, si era vantata di essere migliore di Leto perché aveva avuto più figli, ben sette maschi e sette femmine. Artemide e Apollo allora erano calati dal cielo e avevano fatto strage della sua prole, infliggendo loro una morte lenta e dolorosa. Anfione, pazzo di dolore, tentò di distruggere il tempio di Apollo, ma il dio lo trafisse immediatamente con le proprie frecce. Artemide, invece, tramutò Niobe in una statua di pietra, lasciando allo stato originale soltanto i suoi occhi. Da quelli sgorgò, tramite infinite lacrime di dolore e di orrore, il fiume Acheloo.

La verginità come imperativo della dea Artemide

Particolarmente feroce, del resto, la dea Artemide si dimostrava ai danni delle ninfe che non rispettavano (sia volontariamente, sia involontariamente) il voto di castità.

Emblematico è il caso di Callisto, una ninfa che Zeus sedusse presentandosi a lei sotto le sembianze di Artemide stessa. Inferocita, quando Artemide apprese che la fanciulla aveva perso la verginità la trasformò in un’orsa. Già nella forma animale, Callisto partorì Arcade, cui soltanto Zeus riuscì a impedire di uccidere la madre in una battuta di caccia. Alla fine, impietosito dalla loro sorte il re degli Dei tramutò entrambi in costellazioni, facendone l’Orsa Maggiore e l’Orsa Minore.

Qualcosa di simile accadde a Polifonte, vergine che si votò ad Artemide per non dover prendere marito. Quando Afrodite, per ripicca, la fece innamorare di un orso, Artemide disgustata la abbandonò al suo destino.

Non a caso, pertanto, i sacerdoti e le sacerdotesse responsabili del suo culto, temendo severissime punizioni, conducevano una vita di castità tra le più rigorose in Grecia. Come il mito insegna, infatti, non si trattava certo di una divinità che fosse il caso di provocare o di far sentire offesa.

Valeria Meazza

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