La cultura delle armi negli Stati Uniti è una questione irrisolta proprio a partire dal suo essere culturale. Quando una controversia è culturale significa infatti che affonda le proprie radici, difficili da estirpare, nel passato. Fin dal 1776 il secondo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d’America garantisce il diritto del cittadino al possesso delle armi. Tale diritto è nato in seno alla colonizzazione dei territori americani da parte degli europei, come strumento di difesa.
Nell’immaginario collettivo gli Stati Uniti d’America occupano un posto più o meno privilegiato. Siamo infatti cresciuti con il mito del “continente nuovo”, dove l’uomo può ricominciare ed essere finalmente libero di diventare chi realmente vuole. Può farlo a dispetto della “vecchia” Europa, con le sue stratificazioni e le sue incrostazioni. I media hanno implementato questa visione edulcorata, fatta di case recintate da una staccionata bianca e di un canestro appeso al muro. Con quel canestro i ragazzi americani giocano nell’attesa che papà arrivi dal lavoro la sera con un grande e costoso SUV, che l’America “dove tutto è possibile” gli ha regalato. Tutti, allo stesso modo, ci siamo identificati con il/la ragazzo/a con la valigia piena di sogni, che alza la testa sui grattacieli di Manhattan, pronto/a a svoltare la propria vita nel luogo dove i sogni diventano realtà.
Può succedere però, che un giorno il papà che guida il costoso SUV non torni a casa la sera e il vialetto rimanga vuoto. Può succedere anche che un bambino vada a scuola la mattina e non torni a casa la sera. Anche il/la ragazzo/a con la valigia piena di sogni può trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Ogni giorno negli Stati Uniti d’America i sogni lasciano il posto alla realtà: si muore per un colpo d’arma da fuoco.
Le armi da fuoco sono la prima causa di morte che riguarda i minori di diciannove anni afroamericani, la seconda in generale, dopo gli incidenti d’auto, come emerge dal libro di Gary Younge, “Un altro giorno di morte in America”. Se contiamo solo gli omicidi di massa compiuti con arma da fuoco, dall’inizio del 2019 il numero è arrivato a 249. I dati registrano anche che sarebbero circa 350 milioni le armi che circolano nel Paese, più del numero complessivo dei suoi abitanti (327 milioni). Cifre che fanno impressione, ma non a tutti.
Negli Stati Uniti si può comprare un’arma con una facilità spiazzante e, sempre con la stessa, usarla.
Il cinema offre al suo pubblico l’opportunità di mettere in atto un punto di vista critico sulla cultura delle armi negli Stati Uniti. “Bowling a Columbine”(2002) di Michael Moore, “Elephant” (2003) di Gus Van Sant sono tra i titoli più celebri, che hanno trattato la tematica con modalità totalmente opposte. Il primo è un documentario che ci accompagna per mano verso la tesi di Moore: gli americani sono ossessionati dalle armi come lo sono del controllo.
Gli americani fondamentalmente hanno paura e si preoccupano della propria incolumità per il clima di terrore che i media hanno costruito.
Colpisce un’affermazione di un intervistato in “Bowling a Colombine”, il quale sostiene che, in quanto americano si ha il dovere di possedere un’arma per difendersi e difendere la propria famiglia. In parole povere: se non ce l’hai sei un irresponsabile, chi deve difendere la tua incolumità? La polizia?
Sempre secondo il documentario di Moore, nei primi anni Duemila scendevano i numeri reali degli omicidi, ma salivano i numeri di quelli riportati dai mezzi di informazione. I media riportano principalmente le grandi sparatorie, le stragi che fanno notizia. Come denuncia Gary Younge nel suo libro “Un altro giorno di morte in America“(2018), le singole vittime passano invece in secondo piano e questo è il dato più terrorizzante.
Le morti che passano in secondo piano determinano una normalizzazione del male a favore di ciò che fa più notizia.
Il film “Elephant” non accompagna lo spettatore davanti al problema. Lo travolge silenziosamente, lo immerge nella sua insensata e tragica realtà, in un’atmosfera di irrealtà. La stessa che pervade ancora oggi la nostra mente, quando veniamo a conoscenza dell’ennesima sparatoria accaduta negli Stati Uniti.
La cultura delle armi è un problema che si evince dal titolo del film di Gus Van Sant. Possiamo paragonarlo ad un grosso elefante in mezzo a una strada. L’animale cammina e si muove ma, nonostante ciò, non lo vediamo.
La cultura delle armi in America colpisce l’opinione pubblica, ma tale rimane. Essa affonda le sue radici in una storia dove le armi sono normali quanto lo sono le automobili.
Non basta infatti il dolore, non bastano i numeri. La normalità della paura e della naturale difesa con un’arma, pervade il pensiero comune dell’uomo medio americano, che non rinuncia al suo fucile o alla sua pistola riposte in casa come oggetti di arredamento.
Il cinema è specchio di queste consuetudini: c’è sempre infatti, quasi in ogni film americano, una pistola o un fucile nascoste all’interno della “casa con la staccionata bianca”.
L’agghiacciante normalità della cultura delle armi e l’ossessione degli americani per le stesse è magistralmente portata sugli schermi cinematografici dal regista palestinese Elia Suleiman, nel suo ultimo film presentato a Cannes, “It Must Be Heaven” (2019). Suleiman immerge lo spettatore in un immaginario surreale, ma non troppo. Una sequenza del film mostra le strade di New York City attraversate da uomini e donne americane armati. Le persone passeggiano con un fucile a penzoloni come se fosse una borsetta, mentre la polizia è impegnata in tutt’altre faccende.
La cultura delle armi non è fatta solo di terrore e ipercontrollo, però. Come mostra il recente film di John Madden “Miss Sloane”(2016) sono infatti la politica e la lobby delle armi tra i principali responsabili di una normalità che coinvolge sia il possesso di un’arma, che le conseguenze di quel gesto.
In ultima analisi, vi chiedo: quanto la paura dell’altro determina il coinvolgimento di uno strumento sbagliato? Il problema è lo strumento, oppure sono le persone?
Il dibattito si muove proprio su questi due poli in America. C’è chi difende le armi da fuoco non soltanto come strumento di difesa, ma anche in nome della sanità mentale di chi le usa. Chi è contrario invece punta sul paradosso di un oggetto violento per essere più sicuri. Le armi da fuoco stanno indubbiamente portando in tutt’altra direzione. Se davvero creassero sicurezza gli Stati Uniti sarebbero il luogo più sicuro al mondo, ma i numeri parlano chiaro, non è così.
Da qui l’opinione pubblica potrebbe cominciare a riflettere, ma dubito che la politica americana di Donald Trump si faccia qualche scrupolo, se non all’indomani della recente sparatoria a El Paso, dopo la quale è necessario dichiarare l’attuazione di politiche nuove.
“L’elefante” è sempre più grande, cammina e ingombra le strade, schiaccia i passanti, ma nessuno lo vede.
Claudia Volonterio