Il rogo del filosofo e frate domenicano Giordano Bruno del 1600 è solo il più noto degli eventi che caratterizzarono il pontificato di Clemente VIII.
Asceso al soglio di Pietro all’età di 56 anni, nel 1592, Ippolito Aldobrandini resterà papa fino al 1605. Tredici anni in cui si porrà come arbitro delle maggiori controversie del panorama europeo.
Sarà mediatore del conflitto tra la Spagna ultracattolica di Filippo II e la Francia di Enrico IV, dilaniata dalla guerra tra ugonotti e cattolici. Proverà a contrastare la diffusione del protestantesimo in Olanda, Svezia e Inghilterra. Darà forza alla riforma dei costumi ecclesiastici sulla scia del Concilio di Trento.
Arriverà persino a benedire una tazza fumante di caffè, giudicata “così squisita che sarebbe un peccato lasciarla bere esclusivamente agli infedeli”.
Forse infatuato dagli echi della battaglia di Lepanto del 1571, sarà uno strenuo sostenitore della “crociata ungherese” contro l’impero Ottomano, in appoggio al Sacro Romano impero asburgico, diventando il fautore della più massiccia mobilitazione di truppe pontificie al di fuori dell’Italia di tutta la storia della Chiesa.
UN SANO NEPOTISMO
Come da tradizione, anche Clemente VIII attinse dal ramo genealogico per circondarsi di personalità amiche e dare lustro al proprio cognome. Oltre ad aver nominato cardinali due nipoti e avergli commissionato importanti incarichi all’interno della Santa Sede, vinse la scommessa di affidare le sue imprese militari al “nipote” Giovan Francesco Aldobrandini.
Proveniente da un ramo cadetto della famiglia, ma elevato dal matrimonio con una sorella del papa, il generale scelto da Clemente VIII si era sino a lì distinto per dei successi riportati nella repressione del brigantaggio nei territori pontifici.
Tutta altra storia guidare una massa di circa diecimila uomini, mal addestrati e indisciplinati, sino al fronte magiaro e condurli ad almeno due vittorie contro i turchi, accolte con persino più stupore che favore dai prìncipi di tutta Europa, a riprova di quale credito godesse la spedizione.
BENEDETTA PROPAGANDA
Ad influire in maniera considerevole sui propositi del papa circa la crociata ungherese, contribuì un prototipo di quella che oggi chiamiamo opinione pubblica. Come raccontato da Giampiero Brunelli nel saggio La santa impresa. Le crociate del papa in Ungheria (1595-1601), in quei giorni Roma era invasa dai cosiddetti avvisi, fogli di carta manoscritti che circolavano al grido di «Nuove!».
In essi venivano elencate, tra esagerazioni e ingigantimenti, le imprese degli asburgici contro gli infedeli ottomani, in realtà piccole vittorie in schermaglie per la riconquista di territori contesi. Notizie che diedero un notevole impulso al progetto bellico di Clemente VIII, sin lì limitatosi a finanziare la campagna ungherese asburgica con generose donazioni.
Si deve anche a questo protogiornalismo, frutto del lavoro dei corrispondenti del tempo, l’intervento diretto delle truppe pontificie sorrette dall’entusiasmo dell’alta curia e della nobiltà romana che intravedevano la possibilità di una riconquista cristiana di Costantinopoli.
LE PRIME DUE SPEDIZIONI (1595-1597)
Fallito il tentativo di costituire una Lega Santa cattolica da opporre all’Impero Ottomano, Clemente VIII sfruttò l’entusiasmo diffuso a Roma per preparare la sua campagna militare. A mitigarne gli animi fu la tiepida accoglienza riservatagli dall’imperatore asburgico Rodolfo II che, al pari del predecessore Massimiliano II, puntava a una pace duratura con la “Sublime porta” pur dicendosi favorevole al continuo finanziamento da parte della Santa Sede.
Fu forse questo un altro dei motivi che convinse il papa ad impegnarsi in prima persona, il sospetto cioè che gran parte delle donazioni della Chiesa all’impresa asburgica in Ungheria terminassero nelle tasche della corrotta burocrazia imperiale.
Fu così che, il 4 giugno del 1595, accompagnato da alti capitani della Chiesa, tra cui spiccavano Giovanni de’ Medici, Carlo Malatesta e Vincenzo Gonzaga, alla testa di un contingente di diecimila fanti e seicento cavalleggeri, il generale pontificio Giovan Francesco Aldobrandini raggiunse il fronte magiaro e riportò una fulminante vittoria che valse la riconquista della città di Strigonia.
Una prima campagna che sarebbe potuta essere trionfale, ma che fu stroncata repentinamente dai dissidi tra i papalini e gli imperiali, oltre che dall’insorgere di un’epidemia che decimò le truppe.
Appena due anni dopo Giovan Francesco Aldobrandini capitanò una seconda impresa che portò alla conquista della città di Papa e all’assedio di Giavarino.
Il 4 novembre dello stesso anno, in uno scontro frontale, le truppe pontificie diedero ulteriore prova di coraggio mandando in rotta il contingente del sultano Mehmet III.
LA FINE DEL SOGNO CROCIATO
Sarà questo l’ultimo scontro di cui fregiarsi. A causa di rinnovate frizioni tra i papalini e i capitani imperiali, contrari al piano dell’Aldobrandini che voleva puntare a Buda, il cuore dell’Ungheria, per infliggere una sconfitta decisiva ai turchi, oltre al perpetuarsi di quell’epidemia che decimava i soldati al fronte, l’impresa della crociata ungherese verrà accantonata per altri quattro anni.
Nel 1601 il papa ripropose al generale l’ultima missione in terra magiara. La colonna che partì da Roma contava circa novemila milizie, tra cui comparivano addirittura banditi e altri prigionieri liberati con la promessa che una volta tornati in Italia non si sarebbero più dati all’illegalità.
Erano ormai lontani, almeno nel sentore comune, gli anni dei grandi entusiasmi per l’impresa e persino Clemente VIII dubitava delle reali intenzioni dell’imperatore Rodolfo II, tacciato di portare avanti trattative segrete con il sultano per ristabilire la pace.
Mentre i malumori crescevano di entità sia in Italia che tra i capitani impegnati in Ungheria, il 17 settembre, stroncato da una improvvisa febbre, moriva Giovan Francesco Aldobrandini e con lui il sogno pontificio della crociata ungherese.
Con la morte del suo generale e nipote, Clemente VIII rinunciò definitivamente ai sogni di gloria militare e occorrerà attendere la prima metà del settecento per assistere alla definitiva riconquista dell’Europa cristiana.
Una riconquista che, forse, messi da parte i dissidi e le questioni di rango tra cattolici, avrebbe potuto avere modalità e tempi molto diversi.
Alessandro Leproux