La crisi politica europea, tra fronti interni ed esterni

Bandiere degli Stati membri UE

Il recente tentativo di golpe in Germania e lo scandalo del Qatargate non sono altro che il simbolo di un Vecchio Continente in piena crisi ideologica.

Le istituzioni europee si stanno dimostrando sempre più fragili. O almeno così saranno apparse agli occhi della comunità internazionale, dopo l’inchiesta giudiziaria che ha rintracciato i finanziamenti di Marocco e Qatar per alcuni europarlamentari. Anche le sanzioni contro la Russia, paradossalmente, parlano molto di più dell’Europa che del Cremlino. Persistono infatti le divisioni sulle sanzioni al gas russo emerse tra i paesi del nord e quelli mediterranei, che nell’ultimo vertice Euromed hanno avanzato la proposta di costruire un nuovo gasdotto dal Portogallo a Marsiglia. In più il revival dei nazionalismi nei Balcani, insieme ad una linea poco chiara e indecisa di Bruxelles in politica estera, allontana l’integrazione della regione nella comunità europea. Sono queste le sfaccettature della crisi politica europea che, se non affrontata, potrebbe segnare il futuro della democrazia nel Continente.

La crisi europea nei parlamenti nazionali

Il coinvolgimento di una deputata di AfD nell’organizzazione del colpo di stato ai danni del Bundestag dà un’idea di quanto i partiti di estrema destra in Europa siano oggi capillari quanto pericolosi. Ma la loro crescita non è casuale. Secondo un report dell’intelligence americana risalente a settembre, il Cremlino avrebbe investito ben 300 milioni di dollari per il finanziamento a questi soggetti politici. Nella lista figurano sia partiti di minoranza che governativi come il magiaro Fidesz, il cui leader Viktor Orbán è uno degli avversari più accaniti a qualsiasi sanzione contro la Russia.

I finanziamenti avrebbero avuto inizio nel 2014, in risposta alle sanzioni contro l’invasione russa della Crimea. La guerra contro l’Occidente e la democrazia dunque  era iniziata molto prima dello scoppio della guerra in Ucraina. E se nelle elezioni presidenziali francesi di aprile Renaissance ha avuto la meglio contro il Rassemblement National di Marine Le Pen, in Spagna Vox continua a macinare consensi e ad affollare le piazza chiedendo le dimissioni del governo di Sánchez. Mentre con le elezioni in Svezia di settembre il partito Democratici Svedesi, di estrema destra e discendente dai neonazisti svedesi, è salito al governo con i moderati.

In più, la rete di solidarietà che i movimenti euroscettici hanno costruito in Europa non trova un corrispettivo a sinistra, fuori dall’asse semi istituzionale franco-tedesco. Dopo alcune divergenze sulla crisi energetica, Berlino e Parigi hanno firmato un accordo per l’approvvigionamento reciproco di gas. E intanto al Consiglio UE la stessa Germania, insieme ad altri 5 Stati membri, continua ad essere contraria ad un ulteriore abbassamento dei prezzi. Nessuna cooperazione europea, ognuno per la sua strada: è dunque questo il messaggio implicito che i cittadini europei ricevono, e che li porta ad essere sfiduciati nei confronti delle istituzioni comunitarie.

La crisi europea nei Balcani

Le prospettive non sono le più rosee nemmeno fuori dai confini UE. La penisola balcanica, teatro dell’ultima guerra europea del ‘900, fatica ancora a trovare un posto a Bruxelles. Gli ultimi scontri, ancora in corso nel momento in cui scrivo, nel Kosovo del Nord ripropongono le tensioni etniche che si erano già manifestate con la guerra delle targhe, risolta con un accordo dell’ultimo minuto. In Bosnia Milorad Dodik, ex membro della presidenza tripartita e presidente eletto dell’entità a maggioranza serba, alimenta le spinte centrifughe dei nazionalisti serbi, intaccando il già fragile equilibrio del sistema politico bosniaco. Le sue minacce separatiste (quella di ritirare le forze armate della Repubblica Srpska dall’esercito nazionale, per esempio) e la vicinanza politica alla Russia lo rendono uno dei potenziali destabilizzatori della regione balcanica.

Tuttavia, anche la crisi politica europea ha le sue responsabilità. È il caso dell’Albania e della Macedonia del Nord, candidate all’ingresso in UE nel 2014 e che hanno ottenuto l’apertura dei negoziati solo a luglio 2022 (i paesi dell’ex-blocco sovietico impiegarono pochi anni in più, 13, per aderire completamente alla comunità). Le continue opposizioni contro la Macedonia prima da parte della Grecia e poi della Bulgaria ne hanno di fatto impedito per molto tempo l’ingresso in Europa, giustificate con dispute storiche su nomi e personaggi nazionali.

Il diritto di veto, abusato nel Consiglio Europeo, sembra piuttosto valido a far prevalere le posizioni del proprio paese su quelle di un altro. Lo abbiamo visto per le sanzioni sul petrolio e il gas e le politiche di allargamento, ma lo possiamo vedere anche nelle dinamiche interne dell’UE. A partire dal 1 gennaio 2023 infatti la Croazia entrerà ufficialmente in area Schengen, mentre Austria e Olanda hanno posto il veto sull’accesso di Romania e Bulgaria, preoccupate per l’aumento dei flussi migratori dalla rotta balcanica.

Conclusioni

Le frontiere interne tornano dunque a prevalere su quelle esterne. Il controllo condiviso di quest’ultime, una politica estera comune lasciano il posto a uno scenario più individualista, in cui ogni Stato risponde ai propri cittadini e nessuno parla per tutti gli europei. È questo il rischio che la crisi politica europea porta con sé: fare tabula rasa di un progetto di crescita comune iniziato più di 70 anni fa e mai concluso. A noi sta il compito di portarlo a termine o l’onere di fermarlo e ricominciare da qualche altra parte. Basta che non sia qualcun altro a decidere per noi.

Lorenzo Luzza

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