La crisi idrica che prosciuga il Medio Oriente: il caso iracheno

il caso iracheno

Nel complesso scenario mediorientale la crisi idrica degli ultimi anni ha contribuito in modo sostanziale ad esacerbare i già tesi rapporti politici tra i diversi attori presenti, riducendo progressivamente la cooperazione regionale. In particolare, il caso iracheno rappresenta un chiaro esempio di come lo stress idrico sia in grado di alterare la stabilità di un paese che risulta ancora oggi ‘convalescente’ dopo un passato di conflitti, interventi internazionali e terrorismo.

Le fertili terre mesopotamiche, bagnate dai fiumi Tigri e Eufrate – i due corsi d’acqua gemelli che secondo la Genesi rendevano rigoglioso nientemeno che il paradisiaco giardino dell’Eden – stanno attualmente affrontando una crisi idrica senza precedenti, che mette a dura prova la vita di milioni di persone. Il caso iracheno è in tal senso emblematico: in Iraq, il cui territorio è attraversato dai due fiumi, il deserto avanza inesorabilmente da sud, avido d’acqua e pronto a inghiottire tutto ciò che incontra davanti a se. A Nassiriya, capoluogo della provincia di Dhi Qar nell’estremo sud del territorio iracheno, il livello dell’Eufrate è così basso che in alcuni punti, racconta chi vive in quei luoghi, si può vedere il letto del fiume vicino alle sponde e ai piloni dei ponti un tempo sommersi.

A confermare ciò che la popolazione irachena, arsa dalla sete e dalle temperature infernali, vive ogni giorno sulla propria pelle ci sono, sfortunatamente, anche i dati. Secondo le previsioni del World Bank Group quei territori sono destinati ad essere tra i più colpiti dagli effetti del cambiamento climatico nel prossimo decennio.  In coerenza con tale tendenza regionale, l’Iraq è stato classificato dalle Nazioni Unite come il quinto Paese a livello mondiale a soffrire maggiormente lo stress idrico, ponendo seri problemi anche sul piano della sicurezza interna del Paese.

In quella parte del mondo, il disagio provocato dalla carenza idrica costituisce, infatti, una forte minaccia anche per la stabilità nazionale. Basti pensare che nel 2018 nel Governatorato di Bassora il consumo delle acque inquinate del fiume Shatt-al-Arab, causò l’ospedalizzazione di circa 100.000 persone. In quell’occasione, il malcontento della popolazione locale divampò in proteste contro le istituzioni centrali che misero a dura prova la sicurezza di tutto lo stato. E di recente, a ricordare come negli ultimi cinque lo scenario iracheno sia cambiato in peggio ci ha pensato l’Iraqi Observatory of Human Rights che nell’ottobre del 2023 ha pubblicato un report nel quale oltre a denunciare la grave situazione in cui versano le assetate province meridionali del Paese, in particolare la zona di Muthanna, ha messo in guardia dalle pericolose implicazioni in termini di salute, povertà e stabilità politica che potrebbero travolgere il governo di Baghdad.

A complicare ulteriormente il quadro si aggiunge poi la parziale regolamentazione sui bacini transfrontalieri che ha contribuito negli anni a esasperare le tensioni geopolitiche tra quei paesi che faticano a trovare risposte efficaci alle rispettive crisi idriche nazionali: il bacino idrico del Tigri-Eufrate fa gola, tra gli altri, anche a Siria, Arabia Saudita e marginalmente a Giordania e Kuwait.

Le cause regionali della sete d’acqua irachena

La prima causa dell’attuale condizione di scarsità idrica irachena la si deve ricercare nel complesso quadro geopolitico regionale. Nel dettaglio, è bene ricordare, infatti, che l’Iraq gode sì della presenza lungo il suo territorio dei fiumi Tigri ed Eufrate, ma le foci di questi due corsi d’acqua si trovano rispettivamente in Iran e Turchia. Aspetto, questo, non da poco, visto che dagli anni Sessanta, i paesi a monte hanno costruito una serie di infrastrutture idriche finalizzate alla produzione idroelettrica e al sostentamento della propria popolazione, che hanno progressivamente tagliato fuori dal flusso dei due corsi d’acqua i territori che si trovano a valle dei bacini idrici.


È dalla metà del Novecento che la relazione privilegiata dell’Iraq con le acque dei Tigri e dell’Eufrate inizia a complicarsi seriamente, coinvolgendo progressivamente gli altri attori regionali. Il primo paese ad entrare in contrasto con l’Iraq per la gestione delle risorse idriche è la Turchia; nel 1958 il governo turco ha presentato il grande progetto di sviluppo regionale nel Sud-Est dell’Anatolia, noto come GAP, che prevedeva la costruzione di 22 grandi dighe e 19 centrali idroelettriche entro il 2023, lungo il bacino del Tigri e dell’Eufrate. A partire da questa data, tra i due Paesi si alterneranno periodicamente momenti di scontro e sforzi cooperativi, influenzati anche dalla complessa triangolazione fra Baghdad, Ankara e il Governo regionale del Kurdistan (Krg) sulla gestione delle risorse petrolifere.

Dopo la Turchia è la volta della Siria. Nel 1975 l’Iraq deve fronteggiare una nuova crisi, innescata dalla costruzione della Diga di Taqba in territorio siriano, che ha rischiato di sfociare addirittura nel conflitto armato tra i due paesi. Ma lo stress idrico nell’ormai ex Mezzaluna fertile non risparmiato nemmeno le relazioni fra Iraq e Iran: una delle motivazioni dietro alla guerra del 1980 tra Teheran e Baghdad riguardava, tra le altre cose, proprio la questione della suddivisione delle acque dello Shatt-al-Arab, corso d’acqua formato dalla confluenza del fiume Tigri e dell’Eufrate.

Il flagello del cambiamento climatico

La lotta per l’egemonia dei bacini idrici dei due fiumi che attraversano anche l’Iraq imperversa da più di un secolo nella oramai ex mezzaluna fertile confermando l’importanza dell’oro blu come fattore strategico chiave. Ma a questo primo aspetto se ne aggiunge subito un altro, un po’ più recente: il cambiamento climatico. Oggi, Turchia, Iran, Iraq e Siria si ritrovano a dover gestire una popolazione sempre più numerosa e a fare i conti con la drastica diminuzione della quantità d’acqua presente a causa della mancanza di precipitazioni.

Nel caso iracheno, tra il 2019 e il 2020  i raccolti di grano hanno raggiunto soltanto cinque milioni di tonnellate, a fronte di una popolazione di 40 milioni di abitanti, necessarie per garantire a fatica l’autosufficienza alimentare. Inoltre, l’International Organization for Migration (IOM) ha lanciato un’allarme, facendo notare che la diminuzione dell’acqua dolce dovuta al surriscaldamento globale ha permesso alle maree salate del Golfo Persico di penetrare sempre più frequentemente lungo il corso del Tigri e dell’Eufrate, contaminando i canali secondari e impoverendo ulteriormente i terreni agricoli già a secco di piogge.

Negli ultimi anni le riserve d’oro blu del paese si sono ridotte della metà e il Ministero iracheno delle risorse idriche ha stimato che un ulteriore 25% dell’acqua dolce rimasta andrà perduto nel prossimo decennio. Spesso chi scava pozzi trova soltanto acqua salata e quando è fortunato deve comunque fare i conti con le conseguenze dovute all’uso non regolamentato del sottosuolo. Basti pensare che nella regione meridionale di Samawa, sulle sponde dell’Eufrate, lo scavo illegale di pozzi ha portato alla totale scomparsa del lago Sawa, lasciando la popolazione alla mercé della siccità.

Le colpe della politica irachena

In Iraq, gli effetti negativi del cambiamento climatico sono amplificati anche da una malagestione interna che penalizza fortemente la popolazione, alla disperata ricerca di una stabilità nell’acceso alle risorse idriche. Indagando la storia di lungo periodo del Paese è possibile individuare delle tendenze comuni ai diversi attori politici in relazione alla gestione di questa preziosissima risorsa.

In primo luogo, è doloroso constatare come l’acqua sia stata da sempre intesa alla stregua di un mezzo politico attraverso cui raggiungere interessi spesso lontanissimi dai bisogni primari delle persone coinvolte. L’azione criminale di Saddam Hussein che nel 1991 attuò il prosciugamento delle paludi irachene per punire i Ma’dan, gli arabi delle paludi ritenuti da sempre ritenuti infedeli al regime, ne è un chiarissimo esempio. Il prosciugamento voluto da Saddam fu disastroso, sia da un punto di vista ecologico, poiché causò la morte di numerose specie animali e le paludi si ritirarono del circa 90%; sia da quello umano con le popolazioni autoctone che abitavano da secoli quei territori costrette a migrare.

Ma ancora oggi diverse forze politiche della regione si ostinano a ricorrere alla stessa strategia, strumentalizzando l’acqua come strumento di trattativa politica. È il caso, ad esempio, del Governatorato del Kurdistan del Nord; più volte il KRG ha sfruttato la propria posizione geografica a monte rispetto al resto dei territori iracheni, minacciando di bloccare il flusso d’acqua alle parti più meridionali del Paese, sperando di ottenere in cambio benefici politici e maggiori garanzie sul piano delle richieste autonomistiche.

A completare questo atteggiamento, si aggiunge poi la scarsa importanza data dai decisori politici all’acqua come risorsa per la popolazione, l’ambiente e l’economia irachene. Per rendersi conto di questo aspetto, è sufficiente pensare che nel progetto di ricostruzione del Paese dopo la caduta del regime di Saddam Hussein nel 2003, l’acqua non venne ritenuta una priorità da parte delle autorità della coalizione internazionale. Soltanto negli ultimi anni, a seguito delle gravi situazioni verificatesi sul piano della sicurezza, la questione della scarsità idrica in Iraq ha iniziato a circolare nei consessi nazionali e regionali.

Un futuro dalle prospettive molto incerte

L’attuale condizione di scarsità idrica è il risultato di una serie di fattori interni ed esterni al Paese e lo Stato iracheno fatica enormemente a impegnarsi nel fronteggiare la situazione che diventa sempre più critica. Esattamente dieci anni fa, nel 2013, l’Onu aveva fatto appello alla diplomazia multilaterale tra gli Stati del Medio Oriente e Nord Africa (MENA) affinché cooperassero per cercare soluzioni alla crescente incertezza idrica. In questo scenario, nell’aprile del 2019, sotto l’ombrello di “Save the Tigris” e con la collaborazione di ricercatori, attivisti e ONG locali, è nato il primo Mesopotamian Water Forum, finalizzato a elaborare un modello di governance in grado di tutelare le comunità locali.

Il problema principale resta, però, la delicata situazione interna che non consente ai decisori politici di adottare con serenità norme più severe per contrastare il cambiamento climatico, ma soprattutto di programmare interventi strutturali per ricostruire l’obsoleta e insufficiente rete idrica nazionale.

Nel 2023, dopo uno stallo durato più di un anno, l’Onu ha esortato il governo iracheno a proseguire nel percorso di riforme e a combattere sia la corruzione sia le infiltrazioni nelle istituzioni di al-Qaeda e di altri gruppi terroristici, proteggendo i diritti umani di tutti gli iracheni. Tuttavia, la strada della cooperazione, sia interna che regionale, sulle fonti idriche resta estremamente complessa e talvolta ostacolata da competizione geopolitica, rivalità economica e asimmetrie tra paesi “a monte” e paesi “a valle.

Perciò in questa importantissima partita che coinvolge milioni di persone e almeno quattro stati, sarebbe già molto importante che si raggiungesse una prima intesa tra i tre principali players chiamati a scendere in campo per smuovere l’attuale situazione di stallo: lo stato iracheno, il settore privato e le organizzazioni internazionali. In particolare, organismi come le Nazioni Unite, oltre a finanziare i progetti e portare le proprie conoscenze, dovrebbero cercare di mediare diplomaticamente tra i vari attori regionali coinvolti nelle dispute sulle risorse idriche dissuadendoli dal perseguire una strategia che continua a vedere l’acqua soltanto come un’arma di soft power.

Tommaso Di Caprio

 

 

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