Da quando l’uomo ha sviluppato la coscienza per definire se stesso, ha ritenuto suo personale appannaggio la creatività, la narrativa e la capacità di provare emozioni.
Ma stanno davvero così le cose?
La scrittura creativa è ciò che contraddistingue l’uomo dagli animali, ma anche l’uomo dall’uomo. La civiltà storicamente nasce con l’invenzione della scrittura. Prima si può parlare solo di preistoria.
La nascita di una nuova entità nell’ecosistema naturale, la cosiddetta intelligenza artificiale, ha reso traballante molte delle credenze circa la creatività come prerogativa umana.
Perché oggi l’intelligenza artificiale è in grado di generare racconti, discorsi politici, articoli giornalistici di cronaca e persino manuali di chimica.
È, tuttavia, ancora un campo piuttosto sconosciuto al pubblico. Anche se in molti, tra sceneggiatori, scrittori, giornalisti e persino politici, hanno cominciato a munirsi di sistemi di intelligenza artificiale.
Sicuramente, l’ambito che più di tutti ha attirato l’attenzione è quello relativo ai bot usati dalla politica. Sistemi che si occupano di generare in modo semiautomatico contenuti sui social. Fogne di disinformazione con l’unico vero scopo di influenzare l’elettorato. Solo dopo una caterva di controlli è infatti possibile distinguere i post creati da bot e post creati da persone in carne ed ossa.
Nel secolo scorso, il matematico Alan Turing ha messo a punto un test teorico per verificare la capacità di pensiero delle macchine artificiali. Tra due prestazioni è possibile distinguere quale è opera dell’uomo e quale del computer? Nel caso dei bot, stando agli effetti sociali, no.
Esemplificativi del potere dei bot sulle scelte di voto democratici, sono i casi del Russiagate e la più recente e nostrana inchiesta giornalistica di Report sull’utilizzo dei followers-bot da parte del partito di Giorgia Meloni, Fratelli d’Italia.
Nel 2016, Valentin Kassarnig ha sviluppato un sistema capace di generare discorsi politici più o meno “da solo”, differenziandoli in base al partito di preferenza. Lo sviluppatore del software automatico ha sfruttato la grande somiglianza che intercorre tra i discorsi politici e che, a prescindere dai colori ideologici, condividono una struttura di base comune.
Non stupisce quindi che un sistema algoritmico di raccolta ed elaborazione di informazioni riesca – forse anche meglio di un uomo – a generare flussi di parole ordinate da un senso logico in un discorso che fila.
Ma, se si può parlare di flussi di parole, non si può parlare ugualmente di flussi di coscienza e flussi di creatività senza cadere in speculazioni fantascientifiche.
Perché per il momento, nella maggior parte dei casi, le intelligenze artificiali sono sistemi che sfruttano algoritmi ad elevatissima precisione ed efficienza dall’ancora forte dipendenza strutturale dell’azione umana.
Storicamente, i sistemi semi-autonomi che l’uomo ha via via inventato sono serviti, in primo luogo per liberarlo dalla fatica noiosa della ripetitività e, in secondo luogo, per regalargli più tempo da dedicare ad attività creative.
Con la stessa finalità vengono oggi usate le intelligenze artificiali nel giornalismo. Come Heliograf, robot-giornalista del Washington Post in grado, attraverso un modello narrativo stabilito dai redattori, che funge da linea guida per abbinare frasi a concetti, di generare articoli giornalistici. Inoltre, è capace di segnalare l’incongruenza su più dati, rendendosi uno strumento utilissimo per i giornalisti che si vedono così liberati di molte noiose scartoffie.
Creatività e computazionalità si pongono allora agli antipodi del processo produttivo di un bene o di un servizio. Mentre la prima è appannaggio dell’uomo, la seconda spetta alle macchine.
In sostanza, le istruzioni che ricevono le cosiddette macchine intelligenti sono soltanto reiterazioni meccaniche guidate dall’uomo, assolutamente privi della capacità di sconfinare nell’ex novo, quindi non in grado di produrre qualcosa di originale.
Questa è sicuramente una tesi ragionevole, ma che molto spesso non tiene conto degli sviluppi recenti del deep learning.
Oggi alcune macchine aprono una breccia tra le mura della computazione pura.
Sono in grado di imparare dall’esperienza grazie alle reti neurali artificiali. Sono in grado di prevedere, interpretare, leggere molte delle nostre azioni, aprendo diversi dubbi su come noi, esseri umani, ci conosciamo.
Per dirne una, ad agosto avevamo parlato di come l’IA di Pluribus avesse trionfato contro 10 giocatori umani di poker, grazie al bluff.
Certamente la creatività non si esaurisce nell’imitazione e nella predizione.
Ma, a dimostrazione di quanto possa essere potente l’IA, possiamo parlare di quanto avvenuto nel corso del Google DeepMind Challenge Match al giocatore di Go, Lee Sedol. Battuto da una macchina che per vincere contro il campione ha dovuto impiegare, non solo la forza bruta di calcolo, ma anche l’inventiva. Si è inventata una mossa – la numero 37 – del tutto legittima, ma talmente assurda da rompere le regole canoniche di gioco.
Con la stessa logica innovativa, alcuni laboratori si stanno prodigando per creare farmaci e cure con formulazioni chimiche inedite.
E questo perché il pensiero umano, per quanto pazzesco possa essere, ha forse un unico grande difetto: tende ad ancorarsi al primo elemento che si è dimostrato efficace in passato. Neanche a dirlo, questo limite è inaccettabile e controproducente quando si tratta di trovare soluzioni “impensabili” a problemi “già pensati”.
Sebbene anche una scimmia, che sbatte a caso i tasti di una tastiera per un intervallo di tempo sufficientemente lungo, possa arrivare a scrivere la Divina Commedia, io non credo si arriverà al sorpasso delle macchine sull’uomo nel campo della creatività.
Ciò che credo necessario è una riformulazione di ciò che ci distingue come umani.
Se non è la creatività, l’originalità, la scrittura, la capacità di bluffare, cos’è che ci rende umani?
Finora è stato relativamente facile, in quanto ci definivamo attraverso una non somiglianza con le altre forme viventi. Ma ora, l’avvento di una nuova “specie” da noi creata ha terremotato le fragili credenze su noi stessi.
Se per adesso l’uomo non è ancora uscito dalla stanza di controllo delle macchine, non è sicuro che non lo faccia in futuro.
Come nel mito di una Babele moderna, l’uomo s’è fatto Creatore e la macchina è diventata la Creazione che spinge per sollevarsi e toccare il cielo dove siede l’umanità, generatrice e timorosa di perdere il proprio scranno d’autorità.
È vero quel che ricorda Giovanni De Mauro, il problema verrà quando le macchine saranno diventate talmente brave da ingannarci e farci credere di essere più intelligenti di noi.
Al fine di evitare l’invasione dell’incubo fantascientifico della singolarità tecnologica – ovvero, il punto di non ritorno in cui le tecnologie saranno diventate talmente incontrollabili dall’uomo da gravare sulla sua intera esistenza – è di fondamentale importanza non distogliere lo sguardo scrutatore dalle implicazioni etiche della ricerca tecnologica e scientifica.
Anche a costo di distruggere la torre di Babele che, con tanta pazienza, avevamo messo in piedi insieme alle macchine.
Axel Sintoni