La condanna a morte di Dostoevskij: la vita appesa a un filo

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La condanna a morte di Dostoevskij è uno dei paragrafi più interessanti della biografia del più grande scrittore di tutti i tempi. Indagatore della psiche umana, penna agile, uomo di intelletto e principio, non ha bisogno di nessuna presentazione.

Le sue opere sono considerate patrimonio dell’umanità e risultato del lavoro minuzioso di una mente a dir poco geniale. Ma non solo. Dostoevskij era un grande osservatore del mondo e dell’umanità, ed è proprio questa sua dote a spiccare tra le molte e a rendergli possibile il delineare personaggi così accuratamente descritti e dannatamente umani. Anche se è importante ricordare che i suoi personaggi non sono tanto “caratteri” quanto uomini “di idea”.

Come tutti gli artisti, Doestoevskij è stato sicuramente influenzato dalle sue esperienze personali. La sua è stata una vita di difficoltà e scandita da traumi. La vita di un uomo della Russia del suo tempo. Se la storia del più grande scrittore russo, infatti, ci appare a tratti davvero drammatica, d’altra parte è altrettanto vero che anche i vari personaggi dei suoi romanzi sono caratterizzati da un’esistenza all’insegna delle avversità, dalla povertà alla malattia. I bambini “fotografati” da Dostoevskij sono i figli dell’indigenza, così come i vari adulti caduti in disgrazia. Sono la personificazione della Russia degli Zar.

La vita in Russia a quei tempi era difficile, ed erano in molti a trovarsi in situazioni davvero complicate. Ma non tutti si trovavano a vivere esperienze a dir poco estreme. Questo successe al nostro amato Fëdor, che a soli 28 anni si trovò ad essere condannato a morte, insieme ad altri suoi compagni giudicati sovversivi dallo Zar Nicola I.

La notte tra il 22 e il 23 Aprile 1849, infatti, la polizia irruppe nelle stanze dove si ritrovavano i sostenitori del circolo Petrasevskij, un circolo molto attivo a Pietroburgo. All’interno di questo, si parlava di politica – l’orientamento era anti-zarista – ma anche di altri argomenti culturali. Questo contesto era particolarmente stimolante: era possibile per i giovani intellettuali confrontarsi sui temi di attualità, sulle questioni morali, sulla politica, la letteratura. Un errore fu però quello di mettere in piedi una stamperia clandestina, cosa che non sfuggì alle autorità e che non poteva essere tollerata.

Dopo sette mesi di reclusione, Dostoevskij si ritrovò sul patibolo, davanti a tantissimi osservatori, “pronto” ad abbracciare la morte. Ma le cose non andarono a finire così.




I condannati indossavano già il loro abito, avevano fatto tutti i rituali precedenti alla condanna: la colazione con vino e caffè, la toletta, la preghiera al prete. Ma improvvisamente risuonarono in cielo i fuochi d’artificio, e all’ultimo momento lo Zar comunico alla piazza che la pena era convertita in quattro anni di lavori forzati. Una pena che il genio russo ha scontato in Siberia.

Chi si è trovato nella stessa situazione può capire cosa abbia vissuto lo scrittore russo, a noi è possibile solo immaginare questa esperienza leggendone. Leggendone, perché questa esperienza ha lasciato una grande traccia nell’animo e nell’opera di Dostoevskij, soprattutto in due opere: Delitto e Castigo, e, di più, L’Idiota.

In Delitto e Castigo, Dostoevskij fa intendere senza mezze misure di essere contrario alla pena capitale. Ma all’interno dell’Idiota, il tema viene sviluppato lungamente. Ne parla il principe Myskin, personificazione della natura umana pienamente bella, il portatore di luce, un uomo capace di donarsi senza riserve né distinzioni, senza timori. Ed è interessante che scelga proprio questo personaggio dalla natura pienamente bella per ripercorrerla.

Trovatosi con la parente Elizaveta Proko’fevna, le racconta di aver assistito all’esecuzione a morte di un uomo, in Francia, tramite ghigliottina. Parlandone, immagina il “sentire” del condannato, affranto dalla consapevolezza che l’anima si staccherà dal corpo. E di nuovo prende posizione contro la pena capitale, dicendo che essere un assassino legale è ben peggio dell’essere un brigante. Ma si sofferma anche sulla condizione di sospensione tra vita e morte.

E se non morissi? Se la vita continuasse? Che eternità! Tutta, tutta la mia vita intera a disposizione. Oh, se così fosse, io non sprecherei mai più un solo attimo di vita e vivrei ogni minuto con l’intensità di un’esistenza eterna!

Se queste testimonianze letterarie ci offrono uno scorcio di quella che deve essere stata l’esperienza di Dostoevskij, la più accurata testimonianza ci viene offerta da una lettera a suo fratello, scritta poco dopo aver vissuto quell’esperienza sul patibolo. In questa lettera (che potete trovare, insieme ad altre lettere di grandi scrittori che vale davvero la pena leggere, qui), oltre ad essere narrata la vicenda, ci viene mostrato tutto l’attaccamento alla vita di un uomo che ha appena rischiato di perderla. E la vita, per Dostoevskji, ha a che vedere con la natura, con il pensiero, con il sentimento, ma anche e soprattutto con la scrittura, che ne è sinonimo.

Non mi sono abbattuto, non mi sono perso d’animo. La vita è vita dappertutto; la vita è dentro noi stessi, e in ciò che ci circonda all’esterno. Intorno a me ci saranno sempre degli uomini, ed essere un uomo tra gli uomini e rimanerlo per sempre, in qualsiasi sventura, non abbattersi e non perdersi d’animo, ecco in cosa sta la vita, e in che cosa consiste il suo compito.(…) Dio mio, quante immagini vissute e da me ricreate sono destinate a perire e a spegnersi nella mia testa, oppure mi si scioglieranno nel sangue come un veleno! Sì, se non mi sarà possibile scrivere io perirò. Sarebbe meglio venir condannato a quindici anni di carcere, ma con la possibilità di tenere la penna in mano.

La condanna a morte di Dostoevskij ha rischiato di privarci di grandi capolavori della letteratura. Ma, per fortuna, non è andata così.

Sofia Dora Chilleri

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