La concezione della donna in Cesare Lombroso e sua figlia Gina

Volti  femminili  e maschili tratti da “L’uomo delinquente in rapporto all’antropologia, alla giurisprudenza ed alla psichiatria”, 5° ed.(1897)

ALLE RADICI DEL MALE

A distanza di oltre un secolo l’opinione più diffusa sull’antropologo, medico e criminologo Cesare Lombroso è quella di uno studioso geniale le cui speculazioni deviarono (usando la sua terminologia) nell’irrazionalità. Quella del “delinquente nato” è una teoria familiare anche al grande pubblico, così come gli studi lombrosiani, mirati a svelare la radice del male che alberga latente in colui che commette un delitto. Capire il criminale, analizzare ogni variabile anatomica e psicologica, poter addirittura prevedere la devianza in un determinato soggetto.

La ricerca di una spiegazione scientifica al presunto atavismo o determinismo della devianza criminale portò alla luce l’oscurità delle tesi lombrosiane (influenzate anche dal darwinismo). La scienza moderna ne ha dimostrato l’infondatezza. Lombroso prendeva in considerazione caratteristiche meramente fisiche (dimensioni delle ossa), somatiche (colore della pelle) o addirittura geografiche, come nel caso di Giuseppe Villella. Fu proprio lo studio del cranio del brigante calabrese (origine cui fu poi imputata un’inferiorità estesa ai meridionali in genere) a “illuminare” l’antropologo. Il rinvenimento di alcune anomalie gli bastò per affermare che una degenerazione o una insufficiente evoluzione fisica determinassero nell’individuo una specie di predisposizione alla violenza indipendentemente dalla volontà. Questo e altri casi furono i prodromi della teoria sull’uomo delinquente, esposta nell’omonimo libro del 1876.

Queste ricerche coinvolsero anche le donne. Se l’uomo delinquente rappresentava per Lombroso la sfida del secolo, il mistero insito nel genere femminile era altrettanto difficile da svelare.

Non certo da spiegare, per un uomo del XIX secolo.

 

LA DONNA DELINQUENTE 

La donna delinquente, la prostituta e la donna normale fu scritto nel 1893 da Lombroso e dal suo futuro genero Guglielmo Ferrero. Il libro ebbe un importante eco internazionale, e si poneva nella generale teoria della devianza criminale, dopo le pubblicazioni di L’uomo bianco e l’uomo di colore (1871) e L’uomo delinquente.

Tra le tesi offerte vi è la fondatezza scientifica di poter distinguere una donna “normale” da una potenziale criminale grazie a determinate anomalie fisiche o degenerazioni morali. Queste variabili spiegherebbero il comportamento di assassine, prostitute e donne dedite all’alcol i cui casi Lombroso esaminò, sia direttamente che tramite testimonianze e documenti. Infatti l’antropologo studiava le caratteristiche dei suoi soggetti anche in carcere, per capirne le mancanze psicofisiche. Ne venivano esaminati anche i cadaveri, su cui Lombroso effettuava attente misurazioni. Elementi come la grandezza e il peso del cervello o persino zigomi e fronte sporgenti bastavano per delineare un profilo di “criminale nata”. In generale secondo Lombroso, la donna delinquente compensava la minore fisicità e intelligenza rispetto all’uomo con una presunta e atavica criminalità latente, da cui si salvavano solo poche donne definite normali e statisticamente irrilevanti (ma comunque in condizione di inferiorità psicofisica e sociale).

Erano proprio queste mancanze a far sì che i reati commessi da donne fossero meno rispetto al sesso opposto; era però l’intelligenza inferiore a rendere ogni donna potenzialmente una criminale in determinate circostanze. Fermo restando i limiti del sesso femminile, questo era nella sua devianza incline alla prostituzione, delitto della donna per eccellenza. Laddove l’uomo delinquente poteva ricorrere all’uso della forza, per Lombroso l’altro sesso si affidava a metodi più subdoli quali l’inganno o il veleno, corredati dalla premeditazione. Anche le donne delinquenti potevano affidarsi alla forza fisica se ne avessero avuta a sufficienza. Infatti per Lombroso un altro segno di devianza nella donna era la sua mascolinità. In presenza di caratteristiche fisiche o psicologiche ritenute tipicamente maschili, era inevitabile che il soggetto in questione prima o poi commettesse qualche delitto.

Comportamenti mascolini nella donna erano criticati anche da Gina Lombroso, che affiancando il padre nei suoi studi, ne proseguirà l’appassionata ricerca.

 




 

 

Gina Lombroso (1872-1944)

LA CONTRADDITTORIA CONDIZIONE DI GINA LOMBROSO

Dotata di straordinaria intelligenza e fin da bambina interessata agli studi del padre, Gina Lombroso approfondì con entusiasmo la ricerca paterna sulla condizione femminile. Impegnata nella pubblicazione di studi sull’antropologia e la psicologia della donna, la stessa Gina rappresentava una contraddizione. Era figlia di colui che teorizzò scientificamente l’inferiorità del genere femminile rispetto all’uomo, eppure tale fardello non influì sulla sua educazione, improntata alla libertà e allo stimolo intellettuale. Nonostante ciò, nel suo intenso lavoro non le mancò mai una dovuta figura di riferimento maschile, nonché l’osservanza degli usi e costumi che pesavano sulle donne dell’epoca. Inoltre dalle opere pubblicate si comprende quale fosse la sua idea della donna nella società, piuttosto limitata. Tuttavia a differenza del padre, ella non sosteneva l’inferiorità naturale della donna, bensì la sua completa diversità rispetto all’uomo.

In Lanima della donna (1920) Gina Lombroso critica aspramente il femminismo, consigliando alle donne di svolgere al meglio il proprio ruolo domestico e familiare prediligendo la vita privata. Inoltre afferma che la donna nasce con un istinto altruistico (alterocentrista) dovuto alla naturale predisposizione per la maternità.

Nella prefazione de L’anima della donna scrive:

La donna è altruista o meglio alterocentrista nel senso che fa centro del suo piacere, della sua ambizione, non in sé stessa, ma in un’altra persona che essa ama e da cui vuole essere amata, il marito, i figli, il padre, l’amico, ecc.

Mario Rafaniello

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