Gli arbëreshë: minoranza etno-linguistica più grande d’Italia in cui musica, senso collettivo e voglia di cambiamento confluiscono plurilateralmente in una visione aperta del mondo.
Gli arbëreshë della Sicilia
C’è un luogo, immerso in una valle protetta dalle quattro montagne Pizzuta, Xëravulli, Kumeta e Maganoce, in cui la storia e le tradizioni rimangono salde contro il capitalismo che vorrebbe distruggere e inglobare ogni diversità.
Ci troviamo in Sicilia, a 24 km da Palermo, precisamente in un paese di circa 7.000 abitanti chiamato “Hora e Arbëreshëvet” (trad. Piana degli Albanesi). Fondata, insieme ad altri comuni del Sud Italia, nel XV secolo dai profughi albanesi che cercavano rifugio nelle coste dell’Italia meridionale dopo l’occupazione turca-ottomana della penisola balcanica.
Ad oggi è tra le più importanti e conosciute colonie di origine albanese ove si parla, tuttora, la lingua arbëreshë cercando di continuare a preservare questa identità, in contrapposizione con la cultura siciliana, mantenendo viva quella d’isola linguistica.
Indirettamente anarchici
Mentre la società della levigatezza cerca di rendere ogni luogo casa, levandone il mistero per darlo in pasto a occhi che non osservano affinché tutto sia simile per far sì che non ci si senta scomodi, questo paese di montagna ha una realtà a sé stante, fondata su antichi miti e con una diversa lettura della realtà. Sentendosi all’inizio ospiti nella terra siciliana, cominciò un vero proprio processo di costruzione d’identità che, dall’iniziale scoperta della nuova realtà, giunse a costruirsi come un mondo culturale mitico in cui le differenze folkloristiche, religiose e linguistiche permisero di creare modelli culturali e antropologici indipendenti dalla patria che li ha adottati.
Per questo, gli arbëreshë della Sicilia stanno ad un passo dall’anarchia: vivono, ancora dopo così tanti anni, in una condizione di triplice patria: italiani e albanesi, ma anche siciliani e, non sapendo mai dove posizionarsi, preferiscono non porsi un limite. Inoltre, la posizione geografica – in cui le quattro montagne circondano il paese quasi facendo da scudo – è simbolica poiché si è parte di un mondo, ma altrettanto ci si distacca e viceversa a proprio piacimento.
Canto popolare come simbolo di apertura
Moj E Bukura More “O Bellissima Morea” è un canto popolare di circa seicento anni fa che racconta la tristezza di chi ha lasciato la propria terra, l’Arbёria (Albania di oggi), personificandola come un amore lasciato lontano. E’ canto tanto antico, quanto attuale e basta trascorrere un paio di giorni nel paese di Piana degli Albanesi per sentirlo canticchiare da giovani e anziani.
Simboleggia una lotta, la resistenza alla globalizzazione e alla guerra che porta via non solo la propria terra nel senso concreto, ma sradica e deturpa il collettivo per distruggere l’individualità. E a Piana degli Albanesi questo è ben chiaro: non c’è un giorno in cui non si guarda la storia passata per contrastare sempre e con più passione, l’istinto di questa società di omologare le differenti culture per crearne una grande massa indistinta.
Nuova musica come militanza identitaria
I giovani e le giovani sono il nucleo militante che porta avanti questa idea: la bellissima morea non dovrà più essere un voltarsi indietro malinconico, ma il pretesto per continuare a non far morire questa piccola ma grande realtà che pullula di voglia di farsi conoscere, di non voler far morire le antiche tradizioni per permettere che ne nascano altre, ancor più trasversali per le generazioni future. L’omonima band arbëreshe SHEGA ha fatto proprio questo: ha unito la lingua arbëreshë, loro lingua madre, a un genere musicale contemporaneo (l’indie folk) facendo immedesimare l’ascoltatore in un viaggio musicale che ripercorre temi contemporanei e giovanili come gli amori e le illusioni insieme all’ereditata nostalgia della propria terra, vissuta oramai con uno sguardo nuovo. Il nome della band significa, appunto, “melagrana” in albanese, nome che volutamente rimanda alla pluralità, in questo caso dei chicchi, che metaforicamente simboleggiano le diverse culture, le molteplici identità che però fanno parte tutte dello stesso frutto, la comunità arbereshe, così come del mondo.
La loro canzone d’esordio è stata “Botë e Paqe” (trad. “Terra e Pace”) che già dal titolo dà un assaggio del loro messaggio e si fa portavoce del pensiero delle nuove generazioni. La canzone incita all’abbracciarsi, all’incontrarsi liberi in un mondo senza confini:
“Mirremi për dorje dhe lironemi gjithë bashkë”
(Trad. “Prendiamoci per mano e liberiamoci tutti insieme”)
Gli arbëreshë come eterotopia
Michel Foucault nella sua raccolta di saggi Eterotopia afferma che «ci sono anche, probabilmente in ogni cultura come in ogni civiltà, dei luoghi reali, dei luoghi effettivi, dei luoghi che appaiono delineati nell’istituzione stessa della società, e che costituiscono una sorta di contro-luoghi, specie di utopie effettivamente realizzate nelle quali i luoghi reali, […] vengono al contempo rappresentati, contestati e sovvertiti; una sorta di luoghi che si trovano al di fuori di ogni luogo, per quanto possano essere effettivamente localizzabili. Questi luoghi […] li denominerò, in opposizione alle utopie, eterotopie»
Le eterotopie di Foucault ricordano le “comunità matrioska” , come quella arbëreshë e non solo, che grazie al flusso migratorio, le diverse esperienze culturali si sono sedimentate l’una sull’altra, fino a creare dei veri e propri mondi nuovi e intersezionali.
Quindi, la domanda è: se in molti “contro-luoghi” si è riuscito per secoli a convivere con queste pluri identità, perché si ha così tanta paura che un giorno i confini possano smettere di esistere?