Dopo il ruolo positivo giocato nella riunificazione diplomatica tra Arabia Saudita e Iran, Pechino prova a rafforzare la propria immagine di “potenza responsabile” anche nella crisi a Gaza mediando un accordo tra le fazioni palestinesi rivali.
Creare un “governo di riconciliazione nazionale” ad interim per la Cisgiordania occupata e la Striscia di Gaza dopo la fine della guerra e bloccare il controllo israeliano sui territori palestinesi. E’ questa la promessa che i rappresentanti di Hamas e Fatah (ex Organizzazione per la Liberazione della Palestina e ora espressione dell’Autorità nazionale Palestinese in Cisgiordania), insieme ad altre 12 fazioni palestinesi, hanno messo nero su bianco in una dichiarazione firmata al termine della tre giorni di colloqui tenutasi a Pechino dal 21 al 23 luglio proprio mentre la crisi a Gaza infuria e il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, è negli Stati Uniti per parlare davanti al Congresso.
L’accordo, raggiunto sotto gli auspici della diplomazia cinese e già definito “storico” dal ministro degli esteri Wang Yi, è l’ennesimo tentativo di ricomporre lo scisma politico tra le due principali fazioni palestinesi, Hamas e Fatah. I colloqui ospitati da Pechino seguono il precedente round di incontri ad alto livello svoltosi ad aprile e confermano la volontà cinese di uscire dalla propria confort zone per insidiare la leadership di Washington in Medio Oriente.
Nell’attesa di sapere chi sarà il prossimo presidente degli Stati Uniti, Xi Jinping continua, dunque, a lavorare per accrescere il suo prestigio come statista globale, facendosi portatore di una proposta di pace e stabilità alternativa, ma soprattutto in grado di incontrare il favore di quei paesi sedotti e abbandonati dalla diplomazia della Casa Bianca.
Quanto è credibile la proposta cinese per risolvere la crisi a Gaza
La proposta di Pechino prevede un approccio in tre fasi per risolvere la crisi a Gaza. Primo: la negoziazione di un cessate il fuoco “duraturo e sostenibile”. Secondo: un governano di unità nazionale guidato dai palestinesi. Terzo: il riconoscimento di uno stato palestinese a livello internazionale e l’ingresso della Palestina come membro a pieno titolo delle Nazioni unite con la definitiva attuazione della soluzione dei due stati.
A giudicare dall’importanza dei membri di Fatah e Hamas presenti al summit sembra che entrambe le parti vogliano passare davvero dalla teoria alla pratica. A guidare la delegazione di Fatah in Cina c’era infatti il vice presidente del comitato centrale Mahmoud al-Aloul. Per Hamas era presente, invece, l’alto esponente Mousa Abu Marzouk, il quale ha dichiarato: “Con questo accordo diciamo che la strada per completare questo viaggio è l’unità nazionale. Ci impegniamo a perseguirla e la chiediamo”.
Ma nonostante la fanfara con cui è stata annunciata la soluzione cinese è ancora lontana dall’essere quel successo diplomatico sottolineato dal ministro Wang Yi.
Il passo avanti verso il riconoscimento di uno stato di Palestina non piace a Gerusalemme che attraverso il suo ministro degli Esteri, Israel Katz, ha già commentato l’intesa tra Fatah e il movimento islamista responsabile del pogrom del 7 ottobre: “Invece di rifiutare il terrorismo, Abu Mazen abbraccia gli assassini e gli stupratori di Hamas, rivelando così il suo vero volto”.
Inoltre, la storia insegna che le potenze esterne non sono quasi mai state in grado di imporre da sole un cessate il fuoco duraturo senza il sostegno degli stessi belligeranti. Nel caso specifico della crisi a Gaza, i due contendenti sul campo sono Hamas e Israele. Dopo il 7 ottobre, non condannando apertamente l’attacco dei miliziani palestinesi ai kibbutz, Pechino ha aumentato esponenzialmente la distanza politica con Gerusalemme giocando sull’ambiguità diplomatica, riflesso di una più ampia neutralità anti-occidentale già adottata dal Dragone nel piano di pace proposto per risolvere l’altro grande conflitto del nostro tempo, la guerra in Ucraina.
Dal canto loro, gli Israeliani non hanno tardato a rispondere, inviando prima una delegazione parlamentare a Taiwan, e firmando poi una dichiarazione congiunta alle Nazioni Unite che condanna Pechino per violazioni dei diritti umani contro la minoranza musulmana degli uiguri. Ma le contromisure israeliane nei confronti dell’ingerenza del dragone non si sono limitate al braccio di ferro diplomatico, e adesso Gerusalemme sta studiando nuovi piani d’intervento per fermare l’acquisizione cinese di una parte del porto di Haifa.
Un segnale per Washington
Da quando è ritornata la guerra su larga scala in Medio Oriente, l’attivismo della diplomazia cinese nella crisi a Gaza ha permesso a Xi di rafforzare l’immagine di una Cina quale “potenza responsabile”, gettando le basi per una de-escalation transizionale in una regione notoriamente controllata da Washington.
Invitando gli inviati di 14 fazioni palestinesi, Pechino ha voluto mostrare al mondo che le condizioni per arrivare alla soluzione dei due stati nella crisi a Gaza esistono, ma la partigianeria di Stati Uniti e Occidente nei confronti di Israele impedisce di porre la parola fine sulle sofferenze del popolo palestinese
Tuttavia, come ogni operazione di marketing politico degna di questo nome, anche la proposta cinese lascia diversi dettagli insoluti. Mettendo per un attimo da parte la retorica, è facile accorgersi di come gli accordi tra le fazioni rivali Fatah e Hamas, raggiunti sotto l’egida della diplomazia cinese, rappresentano soltanto una parte del puzzle mentre lasciano diverse incognite insolute; una su tutte quella riguardante la gestione delle forze di polizia nei territori sotto il controllo di un governo palestinese ad interim.
Avvantaggiandosi del caos americano, dopo la rinuncia del presidente Joe Biden di correre alle prossime elezioni di novembre e il possibile ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, Pechino ha dunque lanciato un segnale chiaro a Washington, incalzando gli Stati Uniti sui principali dossier della diplomazia internazionale e dimostrando di poter rappresentare un’alternativa migliore per il mondo.
La prima visita del ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba in Cina dall’inizio dell’invasione russa, conferma questo disegno. Ma la grande incognita che aleggia sui piani di grandezza cinesi è la parvenza di neutralità anti-occidentale che ha impedito a Pechino di esporsi in maniera decisa sulla crisi a Gaza ma anche sull’Ucraina. Del resto, la storia personale degli Stati Uniti insegna che per diventare una grande potenza anche sul piano diplomatico non basta esserci soltanto facendo professione di ambiguità, ma è necessario scegliere una posizione netta e inequivocabile.
Tommaso Di Caprio