Michele Marsonet
Prorettore alle Relazioni Internazionali dell’Università di Genova, docente di Filosofia della scienza e Metodologia delle scienze umane
La giunta golpista del Myanmar ha ammesso la perdita di una città chiave, Chinshwehaw, posizionata al confine con la Cina, che sembra non più intenzionata a dare il pieno appoggio militare e diplomatico.
Il Myanmar è in piena rivolta. I militari, che hanno assunto il potere nel 2021 dopo l’ennesimo golpe, faticano a controllare il territorio. Numerosi i gruppi armati – per lo più su base etnica – che conducono un’intensa attività di guerriglia contro l’esercito golpista, ottenendo spesso successi di grande portata.
La stessa giunta militare ha ora ammesso la perdita della città strategica di Chinshwehaw, situata al confine con la Cina. La caduta della città è avvenuta dopo molti giorni di intensi combattimenti con le formazioni armate di tre gruppi etnici ribelli che si autodefiniscono “Brotherhood Alliance”. Il fatto è importante perché la suddetta città è uno snodo fondamentale per i flussi commerciali tra il Myanmar e la Repubblica Popolare.
Finora i militari golpisti hanno potuto contare sul pieno appoggio militare e diplomatico della Cina e della Russia in funzione anti-occidentale. A questo punto, però, Pechino ha cambiato atteggiamento chiedendo un immediato cessate il fuoco tra esercito e ribelli. Teme evidentemente l’estendersi delle attività di guerriglia al suo territorio, poiché la città ora in mano agli avversari dei golpisti è situata proprio a ridosso del confine cinese.
Occorre rammentare che il Myanmar, la ex Birmania britannica in epoca coloniale, ha una posizione chiave nella “Via della Seta” così cara a Xi Jinping. Inoltre, tanto Mosca quanto Pechino considerano strategica la posizione del Myanmar ai fini della lotta in corso contro gli Usa e i loro alleati occidentali.
Si noti che la popolazione birmana non sembra affatto rassegnata a dispetto del pugno di ferro adottato dal regime golpista. Vi sono minoranze etniche come Karen, Shan, Kachin e Chin – tutte dotate di un proprio esercito – che da molti anni reclamano l’autonomia (e in alcuni casi la piena indipendenza) dal governo centrale. In molte aree, pertanto, si svolge una sanguinosa guerra tra l’esercito della giunta golpista e queste forze a base etnica.
Il “Tamadaw”, l’esercito birmano, non ha mai esitato a colpire i civili al fine di intimidirli. Finora, però, non è riuscito nell’intento, giacché scioperi e proteste diventano sempre più frequenti in ogni area del Paese. Gli osservatori internazionali parlano di undicimila morti, decine di migliaia di feriti e circa due milioni di sfollati interni.
La giunta golpista dimostra un’assoluta impermeabilità alle proteste internazionali. Ciò vale tanto per le infinite condanne di Aung San Suu Kyi, quanto per le brutali stragi di civili compiute mediante bombardamenti indiscriminati.
Per il governo cinese la situazione diventa sempre più imbarazzante, anche considerando il fatto che in novembre Pechino assume la presidenza del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Si vedrà quindi fino a che punto la Repubblica Popolare è in grado di controllare la giunta golpista birmana.