Chloé Zhao è la prima donna asiatica ad aggiudicarsi l’Oscar per la miglior regia, con il film Nomadland. Un risultato storico, che ha colpito ed entusiasmato l’opinione pubblica mondiale. Con un’eccezione vistosa: in Cina, paese natale della regista, la notizia è stata cancellata da ogni mezzo di informazione.
La Cina censura l’Oscar di Chloé Zhao: nessun annuncio ufficiale, nessuna notizia sui giornali nei giorni successivi alla premiazione. Non solo: da social media e piattaforme online sono scomparsi in breve tempo i post celebrativi, i video caricati dai fan, gli articoli dei blogger cinematografici. In tutto il Paese, i cinema hanno sospeso Nomadland dalle proprie programmazioni. Il risultato è sconcertante: agli occhi delle autorità cinesi, è come se questa storica premiazione non si fosse mai verificata.
Non è certo la prima volta che Pechino adotta misure repressive e oscurantiste sui mezzi di informazione. Tuttavia, la censura della Cina nei confronti di Chloé Zhao, 39enne naturalizzata americana e vincitrice dell’Oscar alla regia, ci racconta molto dei metodi applicati dal regime. Chloé Zhao infatti non è una pericolosa dissidente; il film con cui si è aggiudicata l’ambita statuetta, Nomadland, è un ritratto delle difficoltà attraversate dalla società statunitense durante la Grande recessione, non certo un’opera di denuncia contro il regime cinese. Che cosa rende quindi la regista così controversa agli occhi di Pechino?
La frase incriminata
Curiosamente, l’opera di Zhao aveva incontrato in un primo tempo l’approvazione del governo cinese. La notizia della sua vittoria ai Golden Globe di febbraio era stata accolta trionfalmente; nonostante il film fosse una produzione statunitense, e la stessa regista fosse ormai cittadina americana, il suo successo era stato considerato motivo di orgoglio per la Cina. Ma è bastato che alcuni utenti su internet ripescassero una vecchia intervista di Zhao, perché l’atteggiamento del regime nei suoi confronti cambiasse radicalmente.
Nel lontano 2013, la regista, interpellata sulla sua infanzia dalla rivista americana Filmmaker, aveva infatti affermato di essere cresciuta in un Paese, la Cina, “dove ci sono menzogne ovunque”. Tanto (poco) è bastato, perché la regista perdesse il favore del governo di Pechino, e il suo nome scomparisse da ogni mezzo di comunicazione.
Il cinema cinese tra censura e celebrazione
L’atteggiamento del governo cinese nei confronti del mondo cinematografico è d’altronde complesso. Le produzioni locali sono sottoposte al vaglio strettissimo del regime; il quale controlla ogni passaggio, dalla sceneggiatura al risultato finale, prima di dare l’ok alla distribuzione. Nel caso di produzioni destinate al mercato internazionale, è richiesta perfino un’ulteriore approvazione. La censura si accanisce non solo sui contenuti strettamente politici, che in realtà, come è facile immaginare, sono evitati in partenza da molti cineasti; ma pretende la rimozione di elementi controversi, dalle scene di sesso, a quelle di violenza, alla rappresentazione del gioco d’azzardo. Per poter affrontare argomenti “scomodi”, i registi sono spesso costretti ad ambientare le proprie storie nel passato, o al di fuori della Cina.
Una sorte simile è capitata a Better Days, altro film candidato agli Oscar 2021, nella categoria miglior lungometraggio internazionale. L’opera, prodotta tra Hong Kong e Cina, avrebbe dovuto essere presentata al pubblico mondiale già nel 2019, all’interno del Festival di Berlino. Ma a pochi giorni dall’anteprima, il film era stato ritirato per “motivi tecnici”. Sono seguiti mesi di revisioni, per cercare di adeguare l’opera alle aspettative degli organi di controllo; preoccupati dall’eccessiva durezza con cui il regista Derek Tsang rappresentava la società cinese, troppo lontana dalla visione trionfale promossa dal governo.
Il sipario sulla cerimonia degli Oscar
L’ultima edizione degli Oscar è quindi risultata piuttosto indigesta alla Cina. Oltre alla vittoria di Chloé Zhao, ormai trattata alla stregua di una nemica di Stato, il regime non ha apprezzato la nomination di Do Not Split, il documentario di Anders Hammer sulle proteste scoppiate a Hong Kong nel 2019. Tanto che il governo di Pechino ha optato per una decisione drastica: per la prima volta da anni, la cerimonia di premiazione non è stata trasmessa in diretta sulle reti nazionali, né riportata sulle pagine dei principali giornali.
A muoversi in controtendenza è stato il South China Morning Post, unica testata che non solo ha dato notizia delle premiazioni, ma ha dedicato ampio spazio alla vittoria di Chloé Zhao e perfino parlato della censura a cui la regista è stata sottoposta. Il quotidiano, già da tempo nell’occhio del mirino per le sue presunte simpatie verso i manifestanti di Hong Kong, potrebbe ora incorrere in spiacevoli conseguenze.
La Cina censura la vittoria di Chloé Zhao in rete
Ma a destare preoccupazione non è solo il generale silenzio dei media ufficiali, ma anche la forza sempre maggiore dimostrata dall’autoritarismo tecnologico cinese. È il trionfo del Great Farewall, la “barriera” adottata ormai da anni dal governo di Pechino, per impedire agli utenti cinesi di muoversi liberamente in rete e accedere alle piattaforme straniere. Molti cittadini hanno tentato inutilmente di seguire la cerimonia al di fuori dei canali consentiti; ma perfino i sistemi di Vpn, che solitamente permettono di aggirare le restrizioni alla navigazione in internet, sono stati velocemente neutralizzati. Sui social media cinesi non ci sono più tracce dei numerosi post che celebravano la vittoria di Zhao, né degli hashtag che la riguardano. Agli utenti interessati è comparso un semplice quanto preoccupante messaggio di errore: “In conformità con le leggi e i regolamenti pertinenti, la pagina non è stata trovata”.
Tuttavia questo sfoggio di potere, più che rafforzare l’immagine della Cina, sembra paradossalmente indebolirla. È infatti lecito dubitare della solidità di un sistema che, per mantenere l’ordine e l’approvazione, si vede costretto a cancellare ogni traccia di dissenso, anche la più blanda e apparentemente innocua; facendo perfino della cerimonia degli Oscar un motivo di preoccupazione nazionale.
Elena Brizio