L’inizio a Les Ulis
Per analizzare la carriera di Thierry Henry, dobbiamo necessariamente risalire alla sua terra natale. Les Ulis, cittadina del Dipartimento di Essonne in Francia, è una piccola realtà nata dal nulla negli anni ’60. Centro pressoché industriale, non gode di fama internazionale, se non per aziende come la Microsoft che ne hanno occupato l’ambiente circostante. Un centro nato nel nulla e che nel nulla ha trovato un fondamento e una base solida per orientarsi verso il futuro. L’assenza di storia e di una matrice culturale identitaria fanno di Les Ulis una città che, senza mezzi termini, si può definire incolore. Ma forse, ogni città cova nel profondo del suo animo una piccola leggenda che si delinea come affascinante tratto dell’immaginario collettivo. Un po’ di colore, pertanto, risiede anche nella fredda Le Ulis.
Antoine Henry porta spesso suo figlio Titì, classe ‘77, alle partite di calcio locali, perché se c’è qualcosa che infonde un poco di spirito nella grigia (in questo caso grigissima) quotidianità è lo sport, e su tutti il calcio. Antoine, originario della Guadalupa, ha sposato la martinicana Maryse ed entrambi, trasferitisi in Francia, hanno deciso di vivere nel Dipartimento di Essonne per dare nuova linfa alla propria vita. Seppur in ristrettezze economiche, la famiglia Henry incoraggia spesso i figli Dimitri, Willy e Titì, a praticare attività sportiva. Quest’ultimo ha una spiccata propensione al gioco del calcio e, nell’insieme multietnico dei bambini nati a Les Ulis, è di certo il migliore. Ha quel non so che di magnetizzante; vuole il pallone tra i piedi, ma si fa anche trovare nello spazio. Non è un caso se inizia a giocare per la squadra della sua città natale per poi passare dopo qualche anno nelle giovanili del Monaco.
L’incontro più importante della carriera di Thierry Henry
Nel Principato di Monaco, tra yacht e alberghi di lusso, tra prìncipi e principesse, scopre dapprima l’estasiante essenza-assenza di imposte dirette, poi l’uomo che cambierà per sempre la sua carriera. Questi, come Titì, è un accentratore di ruoli. Intende essere ovunque, essere a conoscenza di ogni cosa e tenere in mano l’organizzazione di ogni settore; da quello tecnico a quello economico. D’altronde ha conseguito una laurea in economia nel lontano 1974. Il suo nome è Arsène Wenger, un tuttofare in giacca e cravatta che conosce bene il mondo del pallone, come conosce bene i suoi giocatori. Pertanto, la nostra storia potrebbe interrompersi qui, giacché due accentratori di attenzioni come loro non possono andare d’amore e d’accordo. Eppure, Titì e Arsène si completano come se avessero fuso le loro idee in un concentrato di schemi e mentalità.
Wenger utilizza principalmente Henry come ala sinistra data la sua propensione naturale all’uno contro uno e alla velocità di passo. Ecco, se c’è una cosa che più di tutte ha contraddistinto Henry nel corso della sua carriera, quella è proprio il passo. Henry sfiora il terreno di gioco quasi a baciarlo con i tacchetti. Quell’elfico passo di tolkieniana memoria che carezza il suolo sul quale, però, non grava il peso dei suoi 188 centimetri. I cinque anni al Monaco sono conditi da importanti risultati come la vittoria della Ligue 1 nella stagione ‘96/97, il premio come miglior giovane dell’anno nel ’96 e la semifinale di Champions League nella stagione ‘97/98. Nel 1998 vince anche il mondiale con la nazionale francese.
All’ombra della Mole
Nel gennaio 1999 lascia il Monaco per avventurarsi all’ombra della Mole. In effetti, a Torino sponda Juventus, Henry rimane avviluppato nell’ombra senza mai brillare. D’altronde, non c’è sempre un Wenger di turno pronto a condividere le tue idee. Quella rosa è piena di talento, di gente che ne ha viste di cotte e di crude. Difficile, pertanto, guadare il fiume che ti porta ad essere il fulcro del progetto. E poi, c’è un altro francese che ha già preso posto sul trono e non intende lasciarlo (quantomeno non in quella stagione): ha gli occhi color smeraldo e un viso longilineo propri delle popolazioni berbere. Quelle popolazioni che sono un tutt’uno con il deserto; ne assaporano i venti caldi del giorno e ne contemplano le notti gelate. Applica al calcio la stessa elegante transumanza della gente delle dune e riprende dai vortici di sabbia una giocata che ha un capitolo introduttivo nel manuale del calcio: la ruleta. Lo chiamano Zizou, il cognome potete facilmente immaginarlo.
Titì, pertanto, non conclude felicemente la sua avventura bianconera che dura solo sei mesi. Ma c’è una partita nella quale mostra un lato diverso, mai esplorato sino a quel momento: Lazio-Juve 1 a 3. Ancelotti mette Henry prima punta e questi non lo delude siglando una doppietta. Quel pomeriggio di metà aprile, molto probabilmente, Arsène Wenger è seduto sul divano di casa, o forse in pub di Londra che trasmette la Serie A, molto seguita all’epoca in Inghilterra grazie al programma Football Italia. E in quel momento capisce: il ragazzo è troppo limitato come ala sinistra, deve stare al centro di tutto. Arsène lo chiama, l’Arsenal chiude senza troppi problemi la trattativa. Nell’estate del 1999 il giocatore sbarca a Londra. D’altronde, la nave ha sempre bisogno del suo faro, ma anche il contrario. La carriera di Thierry Henry prende improvvisamente un’altra piega.
Il 14 di Highbury
Cosa dire di Thierry Henry all’Arsenal? Highbury si tramuta in un teatro dove l’attore protagonista entra in scena tra soffici applausi. Perché con lui è sempre una Prima alla scala e la classe da guanto bianco non può essere sporcata da fragorose grida. Centralità e classe, un binomio perfetto per raccontare la favola del numero 14 del Nord di Londra. Diviene un giocatore fuori dal comune: ha le capacità balistiche di un brasiliano e l’efficacia chirurgica di un tedesco; è un attaccante di sfondamento e, al contempo, un abile regista. L’andatura dinoccolata delle sue lunghe leve non è sinonimo di goffaggine, bensì, di grazia signorile. E c’è una cosa che fa impazzire il mondo intero: il tiro da fermo. Non necessita di una lunga rincorsa nel tirare punizioni e rigori, ma di un movimento della gamba sinistra che fa da perno e affonda nel terreno allungandosi di un solo passo e di una gamba destra che funge come estremità in tensione di un elastico. In poche parole: una fionda. Inoltre, quella squadra è composta da giocatori straordinari come Pires, Bergkamp, Vieira, Ashley Cole, solo per citarne alcuni. Viene conferito loro l’appellativo di Invicibles, “Invicibili” di nome e di fatto, giacché non perdono una partita in tutto il campionato che, ovviamente, vincono. 228 gol in totale, scarpa d’oro, due Premier League e una finale di champions, questo è parte del bottino conquistato da Henry a Londra.
Gli ultimi anni di Thierry Henry
Il salto più importante della carriera di Thierry Henry avviene nell’estate 2007 quando il Barcellona lo acquista. Con i blaugrana vincerà oltre al campionato spagnolo anche la Champions League. All’alba dei suoi 30 anni, Titì capisce quale è il suo posto e al Barcellona in quegli anni è assai difficile essere il perno della squadra. Si mette a disposizione, non è più un ragazzino eccentrico, ma un uomo disponibile al cambiamento. Con quasi 35 gol in totale, Henry dà il suo supporto alla squadra e nel 2010 lascia in direzione USA. New York è l’approdo. Raggiunto l’apice, non intende trascinarsi sino allo sfinimento.
Titì, oggi assistente del CT della nazionale belga Martinez, è stato un calciatore unico; imprendibile, immarcabile, mai domo. Quei giocatori che, a prescindere dai numeri, rimangono nella mente di tutti gli amanti di questo sport. La città di Les Ulis ha finalmente un posto nella storia.