L’ONG Mediterranea Saving Humans ha presentato ricorso presso il tribunale di Trapani contro tre Ministeri italiani, quello degli Interni, quello delle Infrastrutture e dei Trasporti e infine, quello dell’Economia e Finanze. Lo scopo del ricorso presentato ai giudici è quello di ottenere l’annullamento del verbale di “fermo amministrativo nave”, notificato al comandante e all’armatore della Mare Jonio il 18 ottobre scorso, due giorni dopo l’operazione che ha portato in salvo 69 persone.
La nave, sottoposta a fermo amministrativo di 20 giorni e ad una sanzione pecuniaria, avrebbe violato il Decreto Legge “Piantedosi” del gennaio 2023 che, secondo l’ASGI –Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione – “interviene per regolamentare o, meglio, per limitare, le attività delle ONG che effettuano attività di ricerca e salvataggio (SAR) nel mar Mediterraneo”. Le disposizioni del decreto, infatti, mirano a rendere maggiormente difficoltose le attività delle ONG fino al punto di criminalizzarle e punirle, con la complicità anche dell’Unione Europea.
Si tratterebbe quindi di un decreto che non poggia su nessuna certezza. Come sostenuto anche da Pagella Politica (quotidiano di fact-checking), smentite da diversi studi in materia sarebbero anche le ipotesi di Meloni e Piantedosi sull’effetto “pull factor” che le imbarcazioni delle ONG avrebbero nei confronti delle partenze (cioè un fattore di attrazione dei movimenti migratori), e che sembrano invece essere solo delle giustificazioni per l’atteggiamento più severo del governo nei confronti di queste organizzazioni.
Il caso della Mare Jonio
Nel comunicato stampa rilasciato ieri da Mediterranea Saving Humans si legge che nel ricorso si ricostruisce con precisione l’operazione di soccorso condotta dalla Mare Jonio in acque internazionali nella serata di lunedì 16 ottobre. Dopo aver ricevuto una segnalazione da Sea Watch Airborne di un gommone in pericolo, la Mare Jonio si è subito diretta sul posto, comunicando la sua disponibilità ad eseguire il soccorso, ma senza ricevere nessuna risposta.
Dopo aver individuato l’imbarcazione, la Mare Jonio ha contattato il Centro di coordinamento del soccorso marittimo di Roma per chiedere istruzioni. Le autorità italiane avrebbero poi intimato alla Mare Jonio di far riferimento al centro “competenze per la zona SAR”, e quindi al comando della guardia costiera libica. Con il peggioramento della situazione, l’equipaggio ha deciso di intervenire prima che il gommone affondasse.
Quel giorno la Mare Jonio ha tratto in salvo 69 persone. Le Autorità italiane hanno assegnato Trapani come porto di sbarco. La nave di Mediterranea sbarca la mattina del 18 ottobre, la stessa mattina in cui al comandante e all’armatore della Mare Jonio sono stati notificati due verbali di sanzione pecuniaria e fermo amministrativo di 20 giorni per non aver informato il centro di coordinamento libico e, soprattutto, di non aver chiesto alla Libia il porto di sbarco.
In sostanza il Governo italiano voleva ci rendessimo complici della deportazione dei naufraghi in Libia, proprio il paese da cui le 69 donne, uomini e bambini, stavano fuggendo, si legge nel comunicato.
Il ricorso, facendo riferimento anche ai rapporti delle Nazioni Unite, insiste sul fatto che “la Libia non può essere considerata un luogo sicuro dove sbarcare i naufraghi e le sue autorità pertanto non possono essere considerate interlocutrici legittime al momento in cui sia necessario ricevere istruzioni in merito allo sbarco dei naufraghi”.
Illegittima quindi, oltre alla pretesa del governo che la Mare Jonio consegnasse alle autorità libiche le persone soccorse, oltre la sanzione e il fermo amministrativo, è il tentativo di imporre Libia e Tunisia come “porti sicuri” quando è dimostrata la complicità delle autorità sia libiche che tunisine con i trafficanti di esseri umani, responsabili di abusi e violenze contro i migranti.
Una lunga lista
La Mare Jonio si va ad aggiungere ad una lunga lista di fermi amministrativi e multe che le navi delle ONG si ritrovano ad affrontare da più di un anno. Le navi civili di ricerca e soccorso Aurora, Geo Barents, Louise Michel, Mare*Go, Open Arms e Sea-Eye 4 hanno affrontato lo stesso destino. Alcune di queste sono state trattenute anche più di una volta, causando la loro assenza nelle zone SAR per oltre 230 giorni, nei quali avrebbero potuto essere invece impiegate per salvare persone da imbarcazioni in difficoltà e per prevenire naufragi che si verificano quotidianamente nel Mediterraneo.
Nonostante i precedenti provvedimenti della Giustizia italiana in merito, come il caso della Comandante Carola Rackete del 2019 o la condanna del Capitano della ASSO 28 per aver riportato a Tripoli un gruppo di naufraghi, il governo italiano continua la sua lotta contro le ONG.
Recentemente, il comandante della Sea-Eye 4 ha ricevuto per la seconda volta il verbale che gli notifica multa e fermo amministrativo con l’accusa da parte delle autorità italiane di non aver seguito le istruzioni della guardia costiera libica. In quel caso, racconta Jan Ribbeck, direttore operativo di Sea-Eye, la guardia costiera libica avrebbe minacciato la Sea-Eye 4 di cambiare rotta e abbandonare la zona in cui era presente un gommone in difficoltà. Sea-Eye ha pubblicato in seguito un video dell’incidente in cui mostra chiaramente come i libici effettuassero manovre pericolose nelle vicinanze del gommone, causando la morte di almeno quattro persone.
“Se il Sea-Eye 4 avesse lasciato la zona del mare, sarebbero morte ancora più persone e nessuno avrebbe saputo di questa tragedia”, continua Ribbeck.
Secondo il professor Valentin Schatz, professore di diritto pubblico e diritto europeo all’Università Leuphana di Lüneburg, “l’ordine di detenzione e a sanzione pecuniaria non hanno alcun fondamento nel diritto internazionale e violano i diritti della Repubblica Federale Tedesca in quanto Stato di bandiera della Sea-Eye 4 garantiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS)”.
Una situazione preoccupante
L’inasprimento delle pene nei confronti delle ONG che operano in mare hanno portato 56 organizzazioni a unirsi in un appello all’Unione Europea e ai suoi stati membri che, dopo il terribile naufragio avvenuto vicino le coste greche nel giugno scorso, in cui sono morte almeno 600 persone, hanno chiesto di interrompere immediatamente l’ostacolo agli sforzi di ricerca e soccorso della flotta civile nel Mediterraneo centrale.
Nell’appello si fa riferimento alla nuova legge italiana che eserciterebbe una certa pressione sui capitani delle ong affinché disobbediscano al diritto marittimo internazionale e all’obbligo di soccorso, di fatto limitandone le operazioni. Questo perché le autorità italiane ordinerebbero alle navi SAR di dirigersi verso un porto assegnato immediatamente dopo un soccorso, anche in situazioni in cui vi erano casi di imbarcazioni in difficoltà nelle vicinanze della nave.
Ad aggravare la situazione è, secondo le 56 organizzazioni, la prassi del governo italiano di assegnare “porti lontani”, imponendo alle navi ONG di sbarcare le persone soccorse in posti distanti fino a 1.600 km e a 5 giorni di navigazione dal luogo del soccorso, andando contro il diritto internazionale, secondo cui lo sbarco dovrebbe avvenire in un luogo sicuro, nel minor tempo possibile e con la minima deviazione del viaggio della nave.
È chiaro che queste politiche non hanno portato nell’ultimo anno ad una diminuzione di flussi migratori attraverso il mediterraneo, ma solo a maggior sofferenza e morte, rendendo ancora più evidente la necessità di maggiori mezzi per la ricerca e il soccorso in mare. Anche perché la grave limitazione degli sforzi di soccorso civile non fermerà i tentativi delle persone di attraversare il Mediterraneo.
Come scrive anche SOS Humanity, “L’ostruzione sistematica delle navi di soccorso da parte del governo italiano le tiene fuori dalla zona di ricerca e salvataggio dove sono più necessarie. Questo nonostante il fatto che il 2023 sia l’anno più mortale per il Mediterraneo centrale dal 2017”.