L’omicidio di Rosario Livatino è un tragico capitolo nella storia della lotta contro la mafia, un evento che ha scosso le fondamenta della giustizia e ha rivelato l’incrollabile determinazione di un uomo incorruttibile. Nel cuore di questa storia, emerge l’eroismo silenzioso di un giudice che ha difeso la legalità con un prezzo altissimo: la sua stessa vita.
Aveva appena 37 anni, quando la mafia scrisse la sua condanna a morte. L’unica colpa di Rosario Livatino, passato alla storia come il «giudice ragazzino», era stata quella di essere incorruttibile. Conosceva i segreti dei clan, era una spina nel fianco per la Stidda che voleva difendere i suoi interessi da quel magistrato inattaccabile e, al contempo, voleva mandare un messaggio ai rivali di Cosa Nostra, al capo dei capi, Totò Riina. L’omicidio di Rosario Livatino era una prova di forza in una guerra senza esclusione di colpi.
L’omicidio al km 10
Era il 21 settembre 1990, una giornata come tante per il Giudice Livatino. Ogni mattina faceva il tragitto da Canicattì, dove abitava con la madre anziana, ad Agrigento, dove lavorava al Palazzo di Giustizia. Stesso orario, stessa strada, stessa sosta per un caffè. Sempre da solo. Livatino non aveva accettato di avere una scorta di poliziotti come angeli custodi, né passeggeri, perché, come dichiarò, non voleva mettere a rischio la vita degli altri in caso di pericolo. Era senza scorta quella mattina assolata quando, al km 10, all’altezza del viadotto Gasena, quattro sicari dalla cosca agrigentina affiancarono la sua vecchia Ford Fiesta color amaranto. Sembrava un sorpasso azzardato, ma dal finestrino della Uno bianca che sfiorò l’auto del giudice spuntò la canna di una mitraglietta.
Leggi anche “Rita Atria, la ragazza di 17 anni che si ribellò alla mafia”
L’agguato durò non più di novanta secondi, e Livatino capì di trovarsi faccia a faccia con i suoi assassini. Tentò di frenare, di ingranare la retromarcia, ma era in trappola. Dietro di lui c’era una moto di grossa cilindrata. Alla fine, cercò disperatamente di fuggire a piedi, saltando il guardrail e gettandosi nella scarpata per trovare rifugio nelle campagne che si affacciavano sulla strada, ma la fuga fu resa ancor più difficile dal fatto che era stato ferito a una spalla da una pallottola. “Cosa vi ho fatto, picciotti?”, furono le sue ultime parole. Una volta raggiunto, i sicari lo finirono utilizzando tre armi diverse. Il magistrato morì, colpito da sette proiettili, l’ultimo dei quali gli trapassò il volto, sparato in bocca per farlo “tacere per sempre”.
Il dolore
Davanti a quel lenzuolo bianco, dove un tempo scorreva un fiume ed era diventata la tomba di un giudice onesto, si formò un gruppo di persone: chi piangeva, chi non aveva voglia di parlare, chi toccava i buchi lasciati dalle pallottole sulla fiancata della Fiesta, come se volesse sentire ciò che aveva provato Livatino negli ultimi minuti della sua vita. C’era anche Giovanni Falcone, con gli occhi lucidi.
“Dietro la bara di Livatino non può nascondersi tutta la magistratura“, disse il giudice Francesco Di Maggio in un’intervista al quotidiano L’Unità, suscitando numerose polemiche. Coloro che erano impegnati in prima linea nella lotta contro la mafia si sentivano abbandonati dallo Stato. I killer e i mandanti furono individuati e condannati. La testimonianza coraggiosa di Pietro Nava, un agente di commercio che si trovava sulla statale in quel momento, fu fondamentale. Nava dovette cambiare nome e vita, ma continua a ripetere: “Lo rifarei ancora“.
Uno dei sicari, Gaetano Puzzangaro, soprannominato “‘a musca”, la mosca, un vecchio soprannome di famiglia, si pentì in carcere e testimoniò per la causa di beatificazione del giudice.
Primo magistrato beato nella storia della Chiesa cattolica
Rosario Livatino, infaticabile e determinato, sceglieva i casi da affrontare per evitare che finissero sulla scrivania di chi aveva famiglia. Pagò un prezzo molto alto per questa generosità. Ma era anche un uomo di fede, una fede che gli valse il soprannome di “santocchio”. Spesso si trovavano appunti, documenti e quaderni con l’acronimo “S.T.D.” Qualcuno lo scambiò per un codice segreto, ma in realtà le tre lettere stavano per “Sub Tutela Dei”, cioè “sotto la protezione del Signore”. Non era un cristiano bigotto, ma credeva nell’importanza di essere credibili oltre che credenti, come una volta disse:
“Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili”.
Rosario Livatino è stato un esempio di integrità e coraggio nella lotta contro la mafia, e la sua memoria vive attraverso la sua eredità di giustizia e fede.