Il peggiore dei sentimenti è l’odio. L’odio è l’aberrazione di ogni pensiero e di ogni capacità umana. Esso è generato dalla rabbia, che superati i suoi limiti, trasforma gli esseri umani in potenziali mostri. La rabbia e l’odio non sono solo sentimenti, ma sono anche strumenti utili ad ogni forma di potere, sia che essa sia determinata, sia che essa sia in divenire. Qualsiasi forma di potere, per esistere, ha bisogno anche dei sentimenti umani e di sfruttarli a suo piacimento.
Oltre un miliardo e mezzo di persone utilizzano Facebook. In Italia ad utilizzarlo sono almeno trenta milioni di persone. Il 21% degli utenti italiani si concentra sulla fascia d’età che va da trentacinque a quarantacinque anni. Nel nostro Paese, gli appartenenti a quel decennio, rappresentano il massimo sacrificio generazionale dalle due guerre mondiali: precarietà, disoccupazione, impossibilità di pensare serenamente al futuro, sono il pane quotidiano per la maggioranza di queste persone, che la politica ha danneggiato quando erano negli anni verdi e quando tornerà seriamente a preoccuparsi dei giovani, quelle persone saranno ormai troppo vecchie. Questa generazione sacrificabile, è stata quasi tutta inviata al fronte invisibile del conflitto economico-finanziario; costretta in trincea a combattere senza armi, un nemico invisibile, meno spettacolare del terrorismo, ma spietato allo stesso modo e capace di creare un numero enorme di vittime, siano esse anche solo morali. A queste persone è stato impedito di esistere, di esprimersi, di avere in alcuni casi dignità e troppe sono state costrette a scegliere la via del suicidio.
Circa quattro mila persone ogni anno, in Italia, decidono di farla finita, il 10% sceglie questa soluzione per problemi economici. Quelle morti andrebbero considerate omicidi di Stato. Il fallimento del capitalismo è figlio dell’incapacità di gestire il suo successo. Il capitalismo si è mangiato da solo, divorando alcune parti che lo componevano: noi. In questa interminabile agonia, in questo accanimento terapeutico per tenerlo in vita, abbiamo sacrificato tutto, abbiamo inquinato il mondo, lo abbiamo sfruttato e stuprato, prima a distanza, poi sempre più vicino, ma non è bastato. Il nostro “sistema malato”, è divenuto ancora più affamato e allora gli abbiamo permesso di cibarsi dei nostri figli. Dagli anni ottanta le disuguaglianze sono aumentate ovunque. Dalla crisi finanziaria, – poi divenuta economica -, del 2008, ancora non ci siamo ripresi e la politica nel massimo della sua espressione è riuscita a tamponarla solo attraverso la perdita di alcuni diritti prima garantiti ai lavoratori, attraverso la diminuzione della spesa pubblica e con la riforma delle pensioni. Dal clima di austerità imposto non siamo mai emersi. Per arrivare a questo punto di errori ne sono stati fatti molteplici (non solo quelli dei nostri politici) e le persone: noi tutti, ne abbiamo pagato le conseguenze. Il mondo come lo conoscevo prima, non ci sarà mai più. Dovremmo, soprattutto noi della generazione sacrificata e quelle vicine, imporci un reset mentale e inventarci qualcosa, dovremmo sviluppare una maggiore empatia e concentrarci maggiormente su aspetti fondamentali, come la solidarietà, il mutuo soccorso, la comprensione, la collaborazione e l’altruismo.
Dovremmo coltivare la pazienza e cercare di sentirci più vicini e meno distanti. Dovremmo rivalutare il significato di socialismo e plasmarlo all’oggi, per migliorare, alla base, la vita degli esseri umani, tutti. In questo cambiamento esistenziale, la tecnologia negli ultimi anni sembrava poterci dare una mano, diminuendo le distanze, aumentando le relazioni, soprattutto attraverso i social network; eppure qualcosa è andato storto e ci troviamo davanti ad un fallimento sociale. La causa principale di questo fallimento è nell’educazione e nella formazione. Quell’opportunità di avvicinamento è diventata principalmente un nuovo strumento di divisione.
I social non sono solo gattini, palloncini, eventi, notizie e possibilità di nuove opportunità, nuove amicizie e nuovi amori. Sono un luogo pericoloso, come l’angolo buio di una strada isolata, che non conosciamo, al calare della notte. I social ci dicono chi siamo e lo dicono meglio degli altri media. Con questo non intendo dire che ciò che mostriamo nei social sia la nostra verità assoluta, probabilmente nei social portiamo quello che riteniamo (non sempre a ragione) il nostro lato migliore, ciò che volgiamo appaia, ma è dietro quell’apparente esposizione in vetrina di noi stessi, che in realtà si cela il mostro sociale rabbioso, che scalpita per tramutare la sua rabbia repressa in odio. Nel web verità e bugie si amalgamano e colpiscono le menti con una facilità disarmante. La maggior parte degli utenti crede a tutto, non perde tempo ad informarsi in maniera più approfondita e si ritrova in un caos mentale senza precedenti, alternato solo dalla moltitudine di filmati violenti o idioti (il massimo della creatività italiana è nella banale parodia di tutto) o dall’imbarazzo della visione (volgare o elegante, disgustosa o eccitante), di parti di corpi sparse o da interi denudati, utilizzati come ultimo mezzo da chi non possiede altri strumenti e risorse per affrontare e approssimarsi al futuro. In questo terreno egocentrico e finalizzato all’edonismo, gli scopi principali delle piattaforme social sono stati disattesi, se non per quelli legati agli istinti umani, come l’accoppiamento. Come è aumentato il possesso è diminuita la cultura.
Più abbiamo e meno sappiamo, meno comprendiamo, meno riusciamo a discernere. Tutto è finalizzato a deconcentraci, a derubarci il tempo e a perdere la consapevolezza. Siamo vicini per illusione, per un tasto che decreta l’amicizia; siamo assenti che pensano di essere presenti attraverso un like. Ci vengono propinate continuamente informazioni inutili, pericolose, distorte, fasulle, in una quantità talmente elevata, che non possiamo più distinguerle naturalmente da quelle utili, vere, importanti. Ripetere una bugia all’infinito, la trasforma in una verità.
Dalla fine degli anni settanta in poi, la cultura è diminuita, ci si è accontentati di passare dalla quasi fine dell’analfabetismo funzionale, ad una intelligenza funzionale comune, tutta incentrata sulla capacità di essere perfetti esecutori multitasking. Esecutori non pensanti. Esecutori con poca memoria storica e con diplomi al seguito. Perfetti consumatori, nulla di più. Pensare è un’attività complicata, che stanca, richiede concentrazione, dedizione, e una volta raffinata, diventa un pericolo per qualsiasi forma di potere. Molto più conveniente allora, incentrare lo sviluppo verso tutto ciò che libera dal pensiero e dal ragionamento, tutto ciò che ci annulla e ci rende individui, prima che persone. Ed è in questo clima di cultura approssimativa, dove dopo le scuole superiori o dopo la laurea non si legge più: non si leggono più libri e neanche quotidiani o settimanali di approfondimento, che si è creato il terreno fertile per i disinformatori. Ci preoccupavamo dell’informazione filtrata dalla televisione e dei giornali e ci siamo affidati a quella della rete. Lo abbiamo fatto senza protezione, totalmente convinti dalla buona fede dei divulgatori (spesso sconosciuti) di notizie. Contemporaneamente imparavamo a formulare e scrivere pensieri brevi, sempre più brevi, talvolta cinguettii e a non leggere più quelli troppo lunghi, per ritrovarci alla fine anche postare e leggere pensieri di altri (anche citazioni fasulle), facendoli nostri per non dover avere più il peso di formularli da soli. Qualcuno dei più giovani, non pago, ha avuto anche la necessità di cambiare le parole, di accorciarle, troncarle, storpiarle. Soprattutto le vocali hanno avuto la peggio: è stato uno sterminio, al pari delle “h” per distinguere alcuni voci del verbo avere. Mi aspetto a breve una canzone intitolata: “l’ortografia è morta”, perché confido ancora in qualche cantautore sensibile.
Nel nome dell’immediatezza e del successo di like, siamo affogati in superficie, intrappolati in un’illusione di conoscenza superiore e convinti di essere i custodi dei segreti celati nella profondità dell’universo. Nulla ci è proibito e nascosto nella nostra pneumatica ignoranza. La nostra pigrizia è stata coccolata e ci ha reso più facilmente manipolabili. Essa ha permesso che qualcuno ci facesse credere di essere più intelligenti di quello che siamo. Questa personale e soggettiva supposizione di intelligenza, unita alla nuova modalità di libertà di espressione fornita dal web, ha mostrato la vera natura del nostro tessuto sociale. La vera crisi è morale, e insieme a quella economica e culturale, ha aumento la disgregazione sociale. Cosa emerge leggendo gli scontri sul web, se non la miseria e l’ignoranza, la perdita della memoria, il razzismo insito in buona parte del Paese e la frustrazione acida mista alla rabbia e all’esigenza sconsiderata di giustizialismo? Quanto di tutto questo, siamo così certi non abbia responsabilità nell’aver permesso di legare il mondo di sotto (quello criminale), al mondo di sopra (quello della politica), con la pace dei nostri sensi prima e con il disgusto dopo? In questo clima di rabbia cieca, dove trovano terreno fertile le radici dell’odio, dove non ci si fida più di nessuno, dove la caduta delle ideologie -senza una loro precisa trasformazione-, ha in parte smarrito l’appartenenza naturale delle persone alla politica attuale e ai partiti (ormai satelliti lontani dalle loro origini, dove tutto si accentra mescolandosi sommariamente e creando una confusione tale che si possono, ma non sempre, distinguere solo i limiti estremi: i confini invalicabili delle distinzioni morali); avvicinandole, alcuni, attraverso l’avversione alla politica in cambio di una totale cancellazione della storia passata, al fine illusorio di trovare ogni soluzione attraverso una pagina vuota, bianca, magari da scrivere in maniera partecipata con matite colorate e sotto l’attenta guida di un nuovo, non sempre visibile, leader.
La politica non smetterà mai di avere responsabilità, nel bene e nel male, in passato, come nel presente e come nel futuro. Illudersi che la politica possa essere sostituita o cancellata, è come chiudere gli occhi e attendere che si materializzi nel conto in banca un milione di euro senza fare nulla, così, per magia. Se quindi la drammatica situazione che sta vivendo il Paese è responsabilità della politica e delle sue scelte passate, è responsabilità della politica, dei partiti o di quelle forme che si dichiarano alternative, ma che operano sullo stesso campo, agire responsabilmente per cambiare e migliorare le cose. Diventa per tanto fondamentale, che oltre a parlare di onestà, si debbano considerare di primaria importanza argomenti come l’etica e la morale. Non solo sul piano teorico, ma nei fatti. Quello che vediamo invece è un constante scontro incentrato all’immobilismo e permeato di continue menzogne, volgarità, illazioni che non fa che disgregare ancora di più il tessuto sociale di un Paese gravemente ferito. L’interesse non è nel formare, nell’educare ma è solo incentrato nel raccogliere a casaccio, tra i disamorati, gli sconfitti, gli ignoranti e aumentare la loro rabbia repressa. Sfruttare quella rabbia e trasformarla in voto. Prima di questo non c’era bisogno, gli elettori avevano un contenitore preciso dove si sentivano rappresentati. Prima si riconosceva un’autorevolezza, oggi perduta dai politici attuali, e si ascoltava, si percepiva quella differenza culturale e ci spingeva in qualche modo a raggiungere quel livello per potersi esprimere senza sfigurare. Oggi no, la differenza si è assottiglia perché la politica ha abbassato drasticamente l’asticella e allora tutti possiamo essere politici. Tutti possiamo pensare che sia facile essere un politico, come essere qualsiasi altra cosa e tutti parliamo di tutto, influenzati dal torrente incontrollato dell’informazione alternativa, dello scandalo e del complotto ad ogni costo. Oggi siamo politici, domani saremo medici e dopodomani giudici o avvocati. Ieri eravamo registi e l’altro ieri ricercatori. In realtà non dovremmo scordare mai che le nostre sono solo opinioni, talvolta importanti, spesso banali, altre volte completamente sbagliate e in alcuni casi inaccettabili anche per una democrazia che difende la libertà di parola (dire: “sporco negro spero che tu e i tuoi figli moriate sul barcone” non è un opinione è razzismo e va combattuto).
Prima le opinioni di tutti, avevano almeno il pudore di restare tra le pareti domestiche o nelle veloci chiacchiere al bar o dal parrucchiere, oggi invece assumono una dimensione gigantesca e globale attraverso i social, andando ad alimentare l’ego, illudendoci di essere importanti e degni di dire la nostra su ogni argomento alla stregua degli esperti. Il tutto accompagnato da una violenza verbale dilagante, che descrive un Paese allo sbando, ignorante e carico di rabbia repressa. Siamo gli uni contro gli altri, disperati urlatori ancora in cerca di una guida, di un capo o di un leader che attraverso il suo verbo, ci trasmetta ogni verità da accettare ciecamente e ogni azione da perseguire, ogni pensiero da formulare o ripetere come un mantra. Qui l’individuo diventa la rappresentazione della macchina perfetta. Una macchina da sfruttare fino alla sua rottamazione.
L’evidenza della pericolosità della propaganda, si riassume nella ricerca del nemico, un nemico invisibile e quando si supera la connotazione del complotto a tutti i costi, quel nemico muta e va descritto come pericoloso anche se debole, meglio ancora se straniero, di colore e di diversa religione. Lo è stato per gli ebrei in passato, lo è per i migranti oggi. Se la politica, non solo quella nazionale, non inizierà ad occuparsi seriamente degli esseri umani, non ci sarà alcuna alba serena. Se il confronto e lo scontro non si baseranno sulla costruzione, ma sull’annullamento del nemico, continueremo a peggiorare le cose. Ascoltare oggi diventa fondamentale per capire e per proporre. L’interesse singolo o di partito deve diventare secondario, rispetto all’interesse comune, rispetto alla dignità dell’essere umano e alla sua libera espressione e allo sviluppo delle sue massime potenzialità. Gli esseri umani, la garanzia dei loro diritti e l’estensione degli stessi, devono tornare al centro del dibattito politico, nazionale e internazionale. Il resto deve essere una conseguenza di questo modo di agire. Serve un’attenta politica sociale e di integrazione. Non c’è più spazio per speculazioni e divisioni assurde per il solo gioco dello spartirsi i voti. Quando le cose cambieranno nel mondo di sopra, cambieranno anche in quello di sotto e viceversa. In fondo siamo lo specchio gli uni degli altri.