Il falso mito del nomadismo è solo uno dei numerosi stigmi che da secoli investono le persone rom e sinte in Italia. Abilmente strumentalizzato, ha giustificato la creazione dei cosiddetti “campi rom”. Una forma di segregazione istituzionalizzata che deve essere superata.
Quando parliamo di popolazione romanès, dobbiamo pensare ad una realtà multiforme, estremamente eterogenea, creata da una miriade di gruppi e sotto-gruppi. In Italia, ad esempio, troviamo principalmente coloro che si definiscono come Rom e Sinti. Queste molteplici sfaccettature tendono però ad appiattirsi e dissolversi alla luce delle rappresentazioni condivise dalla società maggioritaria. Stigmi e pregiudizi permeano da secoli la narrazione sui cosiddetti “zingari”, reificandoli come “altri” nell‘insormontabile opposizione con il “noi”. In Italia, decenni di politiche discriminatorie hanno sancito questa separazione , non solo sotto un profilo morale, ma addirittura spaziale, promuovendo la creazione dei cosiddetti “campi rom”.
Rom ergo straniero: il mito del nomadismo
In Italia la presenza di Rom e Sinti risale sin dal 1500 e circa la metà della popolazione romanès residente sul territorio nazionale possiede la cittadinanza italiana. Ciò, tuttavia, non ha impedito che avvenisse un’operazione di misconoscimento storico, vincolandoli ad uno status di eterni stranieri. Tale processo ha favorito il mantenimento di una condizione di perpetua discriminazione, funzionale al perpetrarsi di uno stato di disuguaglianza giuridica, sociale e politica.
Gli stigmi e pregiudizi hanno svolto un ruolo fondamentale in questo processo. Alimentati dagli interventi giuridici e politici, assieme ad un’opera di (dis)informazione mediatica, si sono radicati e rafforzati nelle coscienze. La persistenza di rappresentazioni stigmatizzanti ha favorito la promozione di politiche escludenti e discriminatorie, istituzionalizzando forme di segregazione e marginalizzazione.
Esempio eclatante riguarda il mito del nomadismo, attributo considerato caratteristico di tutti i popoli rom, o meglio, “zingari”, secondo la narrazione dominante. Nonostante le popolazioni romanès non siano nomadi, ma costrette nei secoli a spostarsi a causa di persecuzioni ad opera dei governi europei, la maggior parte delle politiche avviate in Italia negli ultimi decenni si basano su questa convinzione erronea.
Parole d’ordine: ordine pubblico e sicurezza
Il governo e il legislatore nazionale non hanno mai preso in considerazione la prospettiva di elaborare una strategia organica a livello territoriale, al fine di formulare politiche inclusive rivolte alla popolazione romanès. Ci si è limitati ad affrontare la cosiddetta “questione rom” solamente sotto un profilo di ordine pubblico ed emergenziale.
Consideriamo che in Italia Rom e Sinti non si sono visti riconoscere nemmeno lo status di minoranza! Con l’attuazione della legge n. 482/1999 sulle “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche”, inoltre, la lingua romanès è stata consapevolmente esclusa. Gli esponenti politici di destra si opposero fermamente al suo riconoscimento. Leggendo il dibattito parlamentare dell’epoca, si rinvengono, infatti, affermazioni come quella del leghista Rolando Fontan, che orgogliosamente dichiarava:
Siamo fortissimamente contrari ad ogni tipo di tutela -ovviamente anche quella linguistica- nei confronti degli zingari!
L’invenzione dei “campi rom”
Con una simile attitudine si capisce come in Italia si sia venuto a creare un enorme vuoto legislativo riguardo la tutela dei diritti di Rom e Sinti. Ecco perchè le Regioni hanno dovuto sopperire alle inadempienze dello Stato, emanando, a partire dagli anni Ottanta, numerose leggi regionali e provinciali. Tali disposizioni hanno però affrontato la “questione rom” quasi esclusivamente sotto un profilo di ordine pubblico, al fine di trovare una “soluzione” al “problema zingaro”.
“Nomadismo”, “asocialità”, “rieducazione”, divennero i cardini attorno al quale si costruì il discorso politico. Al fine di proteggere il presunto nomadismo delle comunità romanès vennero istituiti i “campi sosta”, o meglio, “i campi nomadi”, che si trasformarono da subito in uno strumento di segregazione. A partire dagli anni ’90, con l’arrivo di migliaia di profughi in fuga dalle guerre nella Jugoslavia in dissoluzione, i “campi rom” divennero la soluzione comunemente accettata. Persone abituate ad abitare in appartamenti cittadini vennero così relegate in aree separate dai centri urbani, costrette a vivere in spazi angusti, in condizioni igienico-sanitarie precarie.
L’ “emergenza nomadi”
Nonostante le denunce di diverse organizzazioni internazionali, quali Amnesty International e l‘European Roma Rights Center, la “logica del campo” ha continuato a prevalere in Italia, accompagnata da un’atteggiamento securitario. Nel 2008 si raggiunse l’apice, quando l’allora governo Berlusconi emanò il “Decreto emergenza nomadi”, che dichiarava
lo stato di emergenza in relazione agli insediamenti di comunità nomadi nel territorio delle regioni di Campania, Lazio, e Lombardia.
Il Decreto, esteso nel 2009 anche a Piemonte e Veneto, affermava che
I numerosi cittadini nomadi (…) hanno determinato una situazione di grave allarme sociale, con possibili ripercussioni in termini di ordine pubblico e sicurezza per le popolazioni locali.
Su tali presupposti furono giustificate sistematiche violazioni dei diritti delle comunità rom e sinte. Pratiche di schedatura su base etnica (anche rivolte ai minori!), costruzione di mega campi monoetnici e azioni di sgombero forzato divennero la normalità.
Nel 2011 una sentenza del Consiglio di Stato, confermata successivamente dalla Corte di Cassazione, dichiarò illegittimo lo “stato di emergenza”, mettendo un freno alle spinte securitarie.
Ciò nonostante, la maggior parte delle regioni ha mantenuto il “campo rom” come soluzione abitativa preferenziale rivolta a Rom e Sinti. Così che, come ha rilevato l’Associazione 21 luglio, al giorno d’oggi sopravvivono in Italia quasi 100 ghetti etnici riservati esclusivamente alle comunità romanès.
Superare la logica del campo: l’esempio di Palermo
Alla luce di questo quadro critico, però, diversi Comuni italiani hanno manifestato la volontà di superare la logica dei campi rom, impegnandosi per il loro smantellamento e la promozione di soluzioni abitative diversificate.
In prima linea troviamo la città di Palermo, dove, nel 2019, l’amministrazione comunale ha messo fine a quasi trent’anni di segregazione delle comunità romanès. Non solo ha portato a termine lo smantellamento dello storico “campo rom della Favorita” – ubicato alle pendici di Monte pellegrino- ma ha anche effettuato degli adeguati percorsi di fuoriuscita.
La delibera della giunta comunale sugli “Interventi relativi alla dismissione del campo rom” ha, infatti, individuato tre distinte azioni per favorire gli interventi di fuoriuscita:
- Assegnazione di alloggi confiscati alla mafia ai nuclei familiari già inseriti nelle graduatorie dell’emergenza abitativa.
- Accompagnamento all’autonomia abitativa attraverso l’erogazione di contributi economici mensili, come previsti dal progetto PON Metro (Piano Operativo Nazionale).
- Sostegno al desiderio di autonomia abitativa, anche fuori dal territorio comunale. A tal fine, sono stati attivati dei percorsi di cambiamento in risposta a problematiche di tipo abitativo e/o connesse a situazioni di svantaggio economico.
A differenze del passato, le diverse soluzioni abitative pensate per gli ex-residenti del campo hanno incluso, per la prima volta, la totalità dei soggetti. Purtroppo tuttavia, alcune di esse rimangono comunque provvisorie e alcune famiglie versano ancora in una situazione di estrema precarietà.
Alcune note positive…
Sicuramente però, alcune delle azioni intraprese a Palermo hanno avuto un impatto positivo e possono essere prese come esempio di buona pratica.
Tra queste vi è la volontà di affiancare, accanto ai percorsi di autonomia abitativa, azioni finalizzate all’inserimento delle persone rom nel tessuto economico e sociale. Avviando percorsi di presa in carico integrati e multisettoriali è stata riconosciuta l’esigenza di valutare i bisogni specifici degli individui. Persone considerate nella loro unicità e specificità, versanti in condizioni di profondo svantaggio economico e sociale: individui, non “zingari”.
A tale proposito, un’ulteriore nota positiva è sicuramente l’aver adottato, per la prima volta a livello nazionale, delle misure di carattere universalistico. L’aver ad esempio garantito alle persone rom il diritto ad essere inseriti nelle liste dell’emergenza abitativa -accessibile a tutte le persone versanti in condizioni svantaggiate- rappresenta sicuramente una vittoria in termini di civiltà e democrazia.
Importante è stata, inoltre, l‘operazione di negoziazione e mediazione sociale, avviata grazie alla collaborazione tra attivisti, operatori sociali e alcuni esponenti politici. Costoro hanno promosso l’incontro e il dialogo tra i residenti palermitani e le famiglie rom che sono andate ad abitare nei diversi quartieri, appianando i conflitti. Tale azione ha permesso ad alcune famiglie di potersi finalmente installare tranquillamente nelle nuove abitazioni.
Non così lontani
Si è così dimostrato come la tanto proclamata “inconciliabilità” della “cultura” rom con quella italiana è un mito che può, e deve, essere sfatato.
Sicuramente, la strada da percorrere è ancora molto lunga. Il rischio di una repentina interruzione dei percorsi di fuoriuscita dal campo è ancora alto e l’opera di sensibilizzazione sociale è solo agli inizi, ben lontano dall’aver eliminato decenni di rancori e pregiudizi.
Se a Palermo la logica dell’inclusione e l’articolazione pluralistica del discorso democratico riusciranno a prevalere sul dilagante nazionalismo e sulla visione culturalista professata dal discorso pubblico è, ancora, da vedere.
Eva Moriconi