Ho deciso di aprirmi tanto sui social facendo autoironia, sperando di far capire alle persone che la mia disabilita non deve creare né disagio né compassione. Le difficoltà sono tante certo, tutti i giorni, ma sono mie e le affronto, agli altri chiedo solo un comportamento normale.
L’ho fatto perché in questo momento i social sono il mezzo più veloce e più efficace, sapevo di essere pronta a qualsiasi reazione si fosse scatenata in rete, ma non credevo di ricevere invece tanti messaggi positivi e di supporto. L’ho fatto per me, è stata anzitutto una sfida con me stessa, senza preoccuparmi troppo delle condivisioni o delle critiche. Quindi mi sono meravigliata quando la mia storia di integrazione è diventata virale.
Quando voglio raccontarla, mi dico sempre che la cosa migliore è essere spontanei, senza nessun filtro, senza spazio e tempo. Sono nata sorda e non si sa il perché. Mia madre non ha avuto la rosolia in gravidanza, o simili. Io non sono stata colpita da una grave patologia nei primi anni dell’infanzia. Quindi, quando sono nata, sentivo già di portare addosso un mistero, qualcosa di grande che non si poteva spiegare. Come se la sordità fosse predestinata a me.
I miei genitori hanno scoperto tardi – avevo circa 1 anno – che ero una bambina con sordità profonda, ovvero ipoacusia neurosensoriale neurovegetativa. Un giorno, mia madre andò dall’otorino e d’istinto gli disse: “controlli mia figlia”. Da lì trovò la conferma: “sua figlia è sorda come una campana!”. Andò a casa, si mise sotto le lenzuola con me e mi cantò all’orecchio, piangendo, le sue canzoni preferite. Pensò fra sé e sé: “mia figlia non può non sentire la musica!”. Poi, finito lo sfogo, si rimboccò le maniche e cominciammo insieme un cammino meraviglioso, difficile e faticoso. Dal primo anno di vita sono stata protesizzata, ho iniziato a fare logopedia, musicoterapia, e da due anni ho l’impianto cocleare. Il percorso verso la mia integrazione non è certo sempre stato rose e fiori. Anzi, una volta ho toccato il fondo, ma spesso è solo da lì che si trova la forza per risalire.
Per me integrazione vuol dire autonomia, consapevolezza personale e sicurezza nel muoversi all’interno del mondo sociale. Integrazione è prima di tutto accettare sé stessi e il proprio “problema”, farne un punto di forza, mostrarsi per quello che si è, non aver timore del pensiero dell’altro anche se ci influenza facilmente. È anche accettare il fatto che non tutti possono e vogliono camminare sulla nostra stessa strada.
Ho una mancanza certo, che è l’udito, come ad ognuno di noi può mancare qualcosa; ciascuno ha il suo percorso di vita, più o meno difficile, per cui in questo mi considero una persona come le altre.
Mi sento “differente” nella frenesia della vita quotidiana, quando chiedo un caffè al bar, o in farmacia, quando parlo e la gente si gira con un’espressione da mille domande, quando devo chiedere un’informazione ad una persona che non mi conosce e questa non riesce a comprende quello che dico. Certamente il mio modo di parlare è diverso e si coglie all’istante, perché necessita di applicazione particolare. Ma questo, magari, dipende anche dal livello di attenzione che poniamo verso l’altro di fronte a noi, o forse siamo cosi immersi nei nostri problemi che non c’è spazio per le diversità, soprattutto improvvise.
Quello che più mi è pesato è stata la differenza laddove non dovrebbe esserci. Ad esempio, a scuola, ho avuto la “fortuna” di non essere mai stata presa in giro dai compagni di classe per il mio problema, ma sono stata “presa di mira” a volte dai professori. Alle medie gli insegnati non credevano in me. “Non leggerà mai la Divina Commedia”, dicevano a mia madre. Così, io passavo di continuo, come una pallina da tennis, fra due situazioni: a casa, dove ero libera e stimolata, imparavo tutto subito, mentre a scuola, dove i professori mi trattavano come una poverina, non riuscivo a tirare fuori la mia intelligenza. Avevo un insegnante di sostegno che è durato poco, assolutamente inutile per me perché mi portava fuori dall’aula e mi spiegava i concetti diversamente dai professori. Ma io da chi venivo poi interrogata? Ora se ci penso, mi viene quasi da ridere.
Quando ho cominciato ad avvertire su di me gli sguardi straniti, durante gli anni delle medie e i primi delle superiori, che mi trasmettevano quel senso di inadeguatezza e di non-normalità, ho iniziato ad essere timida, a non prendere io l’iniziativa di parlare, ad abbassare il volume della mia voce per cercare di dissimulare quel timbro considerato strano, ottenendo l’effetto contrario!
Al liceo, la mia sordità tornò pian piano ad essere la mia grande sfida. La scuola, per quanto mi riguarda, mi dava metodo di studio, conoscenza, regole, ma non l’integrazione, quella nessuno te la insegna, perché richiede forza di volontà, pratica, anche da parte tua. Senza, nessuna diversità sarà mai integrata.
Tocca a noi, con le nostre diversità, imparare ad avere consapevolezza dei nostri limiti e punti di forza, lavorare sulla nostra sicurezza. Ci si confronterà sempre con l’ignoranza, i dubbi e addirittura la paura nei nostri riguardi, ma ripeto: tocca a noi esser forti, inseguire le possibilità e dimostrare che possiamo eseguirlo nel miglior modo possibile qualsiasi compito.
La mia battaglia per l’integrazione è stata anche buttarmi sempre nel mondo dei “non – sordi”. Ciò non deve esser visto come un rifiuto del “mondo dei sordi” di cui farò sempre parte ma come una mia voluta apertura verso l’esterno, verso il mondo in cui io , sempre da sorda, ho vissuto e mi sono dovuta confrontare. In particolare mi sono sempre dedicata allo sport, credo che sia il mezzo più valido per imparare la parola integrazione.
Personalmente, a chi si trova nella mia situazione, suggerisco che, da piccoli, la prima strada da intraprendere sia imparare a parlare, poi, se si vuole, integrare anche la lingua dei segni, per non limitare le scelte future di un bambino. Noi sordi, infatti, nasciamo con la potenzialità del linguaggio verbale, esattamente come le persone udenti. Io da piccola avevo paura della lingua dei segni, pensavo che potesse togliermi l’uso conquistato della parola, quindi non l’ho mai voluta imparare, anche se ora ho conosciuto delle persone che mi stanno facendo comprendere meglio questo linguaggio.
A dirla tutta, patisco che la lingua dei segni sia considerata l’unica riconosciuta – da numerosi stati – per le persone con sordità. Come se essere sordi significasse per forza essere anche muti. Certo, se non si fa terapia logopedica e/o non si indossano apparecchi acustici, è il destino che verrà. Ma questo spesso mi fa pensare: perché è così difficile considerare la lingua dei segni come uno dei tanti linguaggi che un ragazzo con sordità può acquisire? Come una specie di lingua straniera. Personalmente, so leggere l’inglese ma lo parlo poco, perché non ne ho l’occasione, ma conosco persone sorde che sanno parlare benissimo più lingue. Una persona con sordità che parla l’italiano e conosce la lingua dei segni, non è alla stregua di una persona udente che parla due lingue diverse?
Sapere che molti indirizzano i genitori di bambini con sordità direttamente verso la lingua dei segni come se fosse l’unica via possibile, mi fa venire i brividi di rabbia. Semmai è solo quella più facile. Sia ben chiaro, non sono contro la lingua dei segni. Ma sono fortemente riluttante verso coloro che precludono in questo modo enormi possibilità a chi ha problemi di udito.
Il messaggio che voglio lasciarvi con la mia storia è apritevi alle diversità, perché fanno parte della vita, tutti a modo nostro siamo diversi, ma ogni diversità è unica. Questa è la magia della vita. Il mio motto è vivere con spensieratezza, e soprattutto con ironia, perché è questa l’arma migliore per abbattere i pregiudizi.
Chiara Bucello