Crisi politiche, governi semi-dittatoriali, ingerenze straniere e cartelli della droga pervadono le società latino-americane, lasciando poco spazio alle istituzioni democratiche. L’unico modo in cui la popolazione può farsi sentire è scendendo in piazza.
In Messico è bastato un arresto per scatenare la guerriglia urbana nello stato di Sinaloa. Dopo la cattura di Ovidio Guzman, figlio del signore della droga “El Chapo”, gli affiliati del cartello hanno aperto il fuoco nelle strade di Culiacan provocando scontri nei quali hanno perso la vita 29 persone. È l’ultimo episodio di una sanguinosa guerra, iniziata nel 2006, tra il governo federale messicano e i trafficanti di droga che costituiscono un vero e proprio stato dentro lo stato.
In Perù, nel frattempo, si intensificano le proteste contro il governo Boluarte, dopo l’arresto dell’ex presidente Pedro Castillo accusato di voler intentare un colpo di Stato. Questi fenomeni, già presenti da molto tempo, hanno portato alla disgregazione del patto sociale in molti paesi del Cono Sud. I cittadini nutrono sfiducia nei confronti dei rispettivi governi, gli schieramenti politici sono polarizzati e non esiste un centro che sia in grado di mitigare le tensioni latenti nelle società latino-americane.
Tra caudillismo e legittimità costituzionale
L’America Latina ha una lunga tradizione di colpi di stato, dittature militari e proteste di piazza. Questa instabilità permanente, per quanto alimentata da fattori esterni, ha avuto origine con il travagliato processo di indipendenza delle colonie spagnole. A differenza dei loro vicini nordamericani, nei vecchi reami diventati repubbliche indipendenti dilagava il fenomeno del caudillismo, ovvero la frammentazione della sovranità sul territorio tra diversi capi militari, i “caudillos”. Inoltre il successivo sviluppo economico, tutt’altro che equilibrato e pianificato, approfondì la divisione tra i ricchi proprietari terrieri e i lavoratori delle città, favorendo l’una o l’altra fazione.
In Argentina il fenomeno venne alla luce negli anni ’40, quando il generale Juan Domingo Perón salì al potere sostenuto dai descamisados, cioè il ceto urbano più povero. Le misure di welfare sociale che il governo di Perón prese a sostegno di questi ultimi attirarono però il malcontento dei produttori agricoli, che contribuivano significativamente all’economia del paese con le esportazioni di grano e carne. Dopo la sua deposizione gli scontri tra le associazioni sindacaliste e i governi successivi aumentarono vertiginosamente, fino al periodo della dittatura iniziato nel 1976.
Ingerenze straniere
L’influenza di altre potenze nella politica e nelle società latino-americane è tutt’altro che una novità. Dal Regno Unito, che favorì i processi di indipendenza delle colonie per togliere concorrenza all’Impero Britannico, fino agli Stati Uniti. Con l’elaborazione della dottrina Monroe infatti gli americani affermarono il loro predominio sul continente, rendendo l’America Latina il proprio “cortile di casa” e riservandosi il diritto di intervenire, economicamente o militarmente, nelle sue questioni. Il caso più eclatante è quello di Cuba, paese soggetto alle ingerenze prima degli USA, e poi dell’Unione Sovietica. Unica costante tra i due periodi di pseudo-dominazione straniera: le coltivazioni di zucchero. Sia Russia che America forzarono l’industria agraria dell’isola alla produzione quasi esclusiva di questo alimento, rendendo l’economia cubana estremamente fragile di fronte ai mercati internazionali.
Gli Stati Uniti favorirono anche l’insediamento di dittature come quella militare in Argentina o di Pinochet in Cile, per contrastare la presenza del comunismo in territorio americano. In Nicaragua la CIA addestrò i contras nella lotta contro il regime sandinista, che simpatizzava proprio per i sovietici. Se quindi l’instabilità politica nel Cono Sud è dovuta principalmente alla debolezza del patto sociale tra chi governa e i cittadini, le ingerenze straniere hanno comunque contribuito alla divisione della popolazione in frange ostili l’una all’altra, una povera e difenditrice dell’assistenzialismo statale, l’altra ricca e favorevole al mercato capitalista.
Il traffico di droga
Uno degli ostacoli più pericolosi alla democrazia in Sudamerica è sicuramente lo strapotere dei cartelli della droga, le organizzazioni criminali presenti in Messico e Colombia che gestiscono il traffico di stupefacenti verso il Nord America. Dopo la caduta del Partido Revolucionario Institucional messicano, che aveva raggiunto un accordo tacito con i trafficanti, dagli anni ’80 i cartelli hanno trasportato la cocaina colombiana oltre il confine con gli Stati Uniti, alimentando un mercato che secondo uno studio dell’UNODC (Agenzia delle Nazioni Unite) vale circa 400 miliardi di dollari. La loro presenza costituisce un vero e proprio stato parallelo, costantemente in guerra con le forze governative e la società civile. Per combatterli, nello stato di Michoacán alcuni civili hanno formato addirittura delle milizie armate, i Grupos de Autodefensa Comunitaria.
Narcotraffico, ingerenze straniere e sfiducia nei governi sono dunque le piaghe di un continente ben lontano da come Simón Bolívar, eroe dell’indipendenza, lo immaginava guardando agli Stati Uniti dell’epoca e sperando in futuro simile per le nuove nazioni ispaniche. Non è mai troppo tardi per abbandonare populismi e tendenze autoritarie, mettere in atto riforme politiche e sanare i conflitti nella società civile. Ma in molti paesi sembra che la strada sia ancora lunga, e nessuno sia disposto a percorrerla.