Le microparticelle attraverso alveoli e setto nasale entrano nel corpo provocando effetti neurologici e infiammazioni croniche
Gli studi per analizzare la correlazione tra inquinamento atmosferico e disturbi pisco-fisici non si fermano. Soprattutto dopo aver visto la diffusione del Coronavirus nella Regione Lombardia, che ancora oggi registra più casi di contagiati rispetto al resto della Penisola. Ebbene, un nuovo studio ha dimostrato come la qualità dell’aria possa essere collegata alle funzioni del cervello: un team di ricercatori guidato da Deborah Cory-Slechta dell’Università di Rochester a New York ha analizzato l’inquinamento atmosferico prodotto dal traffico veicolare e lo sviluppo del cervello in relazione all’eventuale insorgenza di disturbi neurologici. Lo studio è stato riportato da PNAS (Proceedings of the National Academy of Sciences), rivista scientifica statunitense, organo ufficiale della United States National Academy of Sciences.
La scoperta è importante perché dimostrerebbe che l’inquinamento atmosferico non colpisce solo l’apparato polmonare o cardiovascolare ma incide anche a livello neurologico. L’analisi è stata effettuata su topi, confrontando il loro comportamento in caso di esposizione prolungata all’aria inquinata, ad esempio vicino a strade molto trafficate. Si evidenzia una crescita anormale nonché un aumento delle neuroinfiammazione nel cervello degli animali esposti all’inquinamento.
Oltre all’infiammazione, ci sarebbero state caratteristiche comportamentali dell’autismo, del disturbo da deficit di attenzione e schizofrenia nei topi esposti agli inquinanti nei primi giorni dopo la nascita.
Una miscela di gas
Quando parliamo di inquinamento atmosferico intendiamo sempre una miscela di gas: biossido di azoto prodotto dai motori diesel, biossido di zolfo, co2, anidride solforosa, ozono, metano, ammoniaca. Ma il componente più pericoloso per il cervello è il PM (Particulate Matter o Materia Particolata) ovvero frazioni di piccolissime particelle che in genere sono prodotti secondari delle combustioni, del traffico veicolare, delle industrie o del riscaldamento.
Le microparticelle: le più pericolose
L’Environmental Protection Agency americana definisce due tipi principali di PM: il PM10 e il PM2.5. Il primo ha un diametro inferiore a 10 micrometri mentre il secondo a 2,5 micrometri. Proprio il PM 2.5, trenta volte più piccolo di un capello umano, può rimanere nell’aria per lunghi periodi di tempo fino a penetrare nel corpo. Grazie alla loro infinitesimale grandezza, queste piccolissime particelle possono risalire il naso ed essere trasportate direttamente nel cervello attraverso il nervo olfattivo, oltrepassando la barriera ematoencefalica che protegge il sistema nervoso da avvelenamenti e intossicazioni.
Cosa provocano le PM
La ricerca del team di Cory-Slechta mostra inoltre che le piccole particelle possono passare attraverso la membrana plasmatica degli alveoli ed essere raccolte poi dai capillari, venendo così distribuite nel sangue. Non è necessario quindi che un inquinante entri nel cervello per causare problemi. Anche il sistema immunitario può reagire alle particelle nel polmone o nel flusso sanguigno, innescando un’infiammazione diffusa che colpisce il cervello. Gli effetti neurologici sono anche indiretti, vista l’interconnessione del cervello con gli altri organi interni. Le particelle PM agiscono anche come vettori: trasportano diossine al ferro e piombo e altri composti chimici. L’accumulo di queste cellule può scatenare l’infiammazione cronica, intaccando le funzioni del cervello e portando a malattie neurodegenerative.
I dati dell’ISS sugli effetti delle PM
L’esposizione all’inquinamento atmosferico – in particolare al materiale particellare PM (PM10, PM2,5), agli ossidi di azoto, all’ozono – può determinare, come specificato dall’Istituto Superiore di Sanità, “un insieme di effetti sanitari avversi già ampiamente descritti nella letteratura scientifica accreditata. Nel 2016, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha stimato che globalmente sono circa 7 milioni le morti premature all’anno correlate a questo fattore di rischio, con il 91% di questi decessi a carico dei Paesi a basso-medio reddito e relative alle popolazioni delle aree del sud asiatico, sub-sahariane e dell’America latina. In particolare, per la popolazione europea sono state stimate circa 550.000 morti premature”. Nel report 2019 (dati riferiti al 2017) l’L’Agenzia Ambientale Europea stima per l’Italia, per esposizione a PM2,5, circa 60.000 morti premature.
Marta Fresolone