Rischi invisibili: L’impatto ecologico delle Intelligenze Artificiali e del cloud computing

Rischi invisibili: L'impatto ecologico delle Intelligenze Artificiali e del cloud computing

Social media, dati salvati in Cloud, servizi di streaming. Il mondo digitale è ora imprescindibile dalla nostra società. Ma i costi in energia e l’effetto che il mantenimento del web ha sul pianeta sono in costante crescita, specialmente in seguito alla popolarizzazione delle intelligenze generative.

Rischi invisibili: L’impatto ecologico delle Intelligenze Artificiali e del cloud computing – Impatto ecologico e sociale, Carbon Footprint e processi di Greenwashing sono da ormai qualche anno al centro del complesso discorso sul futuro del nostro ecosistema, spesso caratterizzato dai toni fatalistici, che accompagna i vasti e molteplici processi raccolti sotto il termine di “cambiamento climatico”.

La spinta, spesso proposta dalla popolazione più giovane, a una prospettiva più lungimirante verso il pianeta abbraccia obbligatoriamente numerosi elementi, dall’industria energetica ed alimentare, passando per la pianificazione urbana e giungendo alla critica della società.

Numerosi elementi, ma non tutti. L’utilizzo massiccio nel mondo contemporaneo della rete e dei servizi che essa offre passa spesso in sordina nelle considerazioni di tipo ecologico, sia a causa della sua natura – per così dire – eterea, sia perché internet è ormai saldamente radicato nella vita quotidiana di tutti.

Ma le tecnologie web-based stanno, lentamente ma progressivamente, accentuando il loro impatto sull’ambiente, lo sviluppo delle Intelligenze Artificiali in primo luogo, a causa dell’enorme consumo di energia richiesto per i processi di training, così come dell’e-waste generato.

Cloud Computing, E-Waste Datacenters, i rifiuti del nuovo millennio

Il mondo digitale, nel suo apparire come distaccato da noi e accessibile attraverso uno schermo, presenta l’inusuale rischio di non permettere al consumatore di valutare quanto il suo utilizzo impatti il pianeta.

Altrettanto insidioso è il termine Cloud, ossia quell’insieme di processi di computazione che sottostanno, alimentano e mantengono la rete: una nuvola di dati, aleggiante nell’aria e che ci permette di accedere ai documenti di lavoro da casa, ai social media, ai servizi di streaming. Ma la “nuvola” alberga in realtà in località remote, i cosiddetti Data Centers, dove l’hardware necessario per mantenerla presenta tre problemi crescenti per l’ambiente.

In primis, il consumo energetico: un singolo Data Center può consumare in un giorno l’equivalente in energia elettrica di 50.000 case. E si tratta di un dato in crescita, tale da aver reso nel 2022 l‘impronta di carbonio del Cloud maggiore di quella dell’Industria aeronautica. In generale, il Cloud contribuisce allo 0.3% delle emissioni di anidride carbonica su scala globale, arrivando al 2% nel caso si consideri anche la produzione di CO2 da parte dei device ad esso connessi, fra smartphone, pc e tablet.



Non solo: chiunque abbia mai dovuto a lavorare con un PC, specialmente in estate, è a conoscenza di quanto calore essi producano, e di quanto allo stesso tempo una temperatura eccessiva possa facilmente danneggiarli. Così, i Data Center si affidano in maniera intensiva all’uso di climatizzatori. Altre soluzioni, come quella del raffreddamento ad acqua, pur limitando le emissioni richiedono, per struttura, milioni di litri d’acqua (spesso potabile) all’anno. La stima annuale di acqua usata da Google per i propri Data Center è di miliardi di litri all’anno, una cifra che fra l’altro dal 2019 è passsata da 1.9 miliardi di galloni a 3.3 nel 2021.

infine, non meno importante è l’e-waste, ossia il rifiuto elettronico, sia esso un cellulare rotto o una vecchia scheda madre. In un mondo dove l’hardware evolve di anno in anno, il bisogno di ricambio delle componenti conduce a circa due milioni di tonnellate all’anno di rifiuti scartati per via della loro obsolescenza o perché non più utilizzabili. L’e-waste risulta inoltre un vero e proprio inferno da un punto di vista di smaltimento, venendo riciclato solo per il 17%

Nuovi problemi: l’impatto ecologico delle Intelligenze Artificiali

Le tecnologie di intelligenza generativa si innestano dunque all’interno di una questione già precaria: si è menzionato su Ultima Voce come lo sviluppo di IA sia di per sé inaccessibile al vasto pubblico, richiedendo macchinari le cui singole componenti (nello specifico, le GPU o NPU) hanno costi variabili dalle migliaia alle decine di migliaia di euro (una scheda NVidia a100, sviluppata per il training di IA, costa all’incirca 18.000 euro, e una buona macchina, o “farm” ne possiede solitamente molteplici).

Si aggiunga allora al prezzo il gigantesco consumo energetico che il training richiede, usando fra l’altro proprio i prima citati Data Center. Secondo OpenAI, l’azienda proprietaria di GPT, la capacità di elaborazione necessaria per lo sviluppo di AI subisce un raddoppiamento ogni 3 mesi dall’anno 2012. Sempre secondo OpenAI, entro il 2040, l’intero settore della tecnologia informatica costituirà circa il 14% delle emissioni di CO2 a livello globale. 

L’ “allenamento” di uno dei principali modelli di Intelligenza generativa (si pesi dunque a ChatGPT o a Midjourney), secondo uno studio dell’Università del Massachusets, causa un’emissione di circa 283,949 chili di anidride carbonica, l’equivalente di 300 voli andata e ritorno da una parte all’altra degli Stati Uniti.

Un ruolo considerevole è inoltre giocato dall’ e-waste relativo alle Intelligenze Artificiali: trattandosi infatti di tecnologia ancora in fase di sviluppo, l’hardware è sia poco efficiente in termini di consumo energetico, sia raggiunge la fase di obsolescenza in tempi relativamente brevi, richiedendo nuovi ricambi, e di conseguenza nuovi rifiuti.

L’impatto ecologico delle Intelligenze Artificiali e del Cloud Computing, fra filosofie accelerazioniste e un inquinamento lontano e invisibile

L’inquinamento causato dall’uso intensivo e costante della rete appare sempre remoto. Si potrà anche sapere che c’è, ma la portata dei suoi effetti è decisamente ridotta a livello di percezione da quella, ad esempio, del sacchetto di immondizia della plastica presente in ogni abitazione, che ogni settimana sembra sempre troppo pieno per una singola persona o famiglia.

Una valutazione di quanto allora le tecnologie di informazione impattino l’ambiente, anche a livello individuale, diventa difficile, se non impossibile. Non di meno, è importante tenere a mente come anche quegli elementi che reputiamo scontati nel mondo d’oggi devono essere considerati, in un’ottica intersezionale.

In ciò, non aiutano le ottiche di guadagno aziendale. La filosofia accelerazionista domina ormai il mondo del mercato tecnologico dall’inizio del nuovo millennio: dove la tecnologia non è ancora arrivata, arriverà, se adesso qualcosa inquina in maniera eccessiva, è necessario investire ulteriormente risorse per renderla più efficiente, meno costosa, meno pericolosa. Il rischio, ovviamente, è di alimentare un circolo vizioso, dove si investe (e si inquina) per tentare di farlo di meno in un offuscato “domani”.

Così, le aziende, non disposte a cedere terreno, fanno le promesse del caso: Google assicura che entro il 2030 i suoi Data Center non solo raggiungeranno le zero emissioni, ma avranno anche tutte un circuito chiuso per l’ acqua di raffreddamento, infinitamente riciclata. OpenAI assicura un maggiore efficientamento energetico nei prossimi anni e così via.

Il progresso, specie se alimentato dal mercato, non conosce la parola “stop”.

Roberto Pedotti

 

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