Il 6 settembre, durante un’intervista all’Associated Press, Tamir Pardo, ex capo del Mossad, l’agenzia di intelligence israeliana, ha accusato il governo di Netanyahu di imporre una politica di Apartheid nei confronti della popolazione palestinese, facendo tornare la questione al centro del dibattito pubblico.
“Un territorio in cui due popoli sono sottoposti a due sistemi giuridici separati è in uno stato di apartheid“. Così dicendo, l’ex capo del Mossad, Tamir Pardo si aggiunge alla lista di importanti personalità dell’establishment israeliano che hanno deciso di prendere posizione sul tema. Ma anche quando affermano l’ovvio, cercano di contenere il danno, e nel processo, offuscano la loro responsabilità personale e cercano di limitare i possibili rimedi. Il termine Apartheid è infatti ancora considerato controverso tra le élite di Israele. Ma negare la realtà diventa sempre più difficile quando le maschere cadono così velocemente come ora.
In Israele si parla di Apartheid
Tutto è iniziato forse all’inizio di quest’anno quando il giornalista israeliano Ron Ben Yishai ha avvertito dell’imminente apartheid come obiettivo principale delle riforme giudiziarie del governo in corso. Poco dopo, il generale israeliano in pensione Amiram Levin ha rilasciato un’intervista alla radio Kan in Israele, dove ha fatto riferimento alla “totale apartheid” nella Cisgiordania occupata, accusando anche l’IDF di diventare complice di crimini di guerra.
Pardo, negli ultimi tempi, è diventato una delle voci più critiche nei confronti della riforma giudiziaria di Netanyahu. All’AP racconta di aver avvertito il presidente israeliano di definire chiaramente i confini del Paese altrimenti avrebbe rischiato “la distruzione dello Stato per gli ebrei”, aggiungendo che “Israele deve decidere che cosa vuole fare. Un Paese che non ha confini non ha limiti”. In questo contesto, Pardo ha voluto precisare inoltre che, secondo il suo parere, ci sarebbero questioni più urgenti nel Paese del programma nucleare iraniano, visto da Netanyahu come una vera minaccia esistenziale, come appunto la questione palestinese nei territori occupati.
Ma il tema dell’apartheid non emerge solo dagli oppositori di governo. A confermare l’esistenza della politica oppressiva e discriminatoria attuata da Israele, c’è Ben Gvir, ministro della Sicurezza Nazionale, che durante un programma televisivo ha ammesso in diretta che il suo diritto e quello della sua famiglia di circolare liberamente in Cisgiordania è più importante di quello degli arabi, aggiungendo “Mi dispiace, ma questa è la realtà”. Non ha pronunciato la parola apartheid, ma ne ha fornito un ottimo esempio, presupponendo una supremazia ebraica su quella araba. Poco dopo, l’alleato politico e ministro del patrimonio Amichai Eliyahu del sionismo religioso è stato intervistato nello studio Ynet sullo stesso argomento, affermando che “Quando una persona minaccia il mio diritto alla vita, limito solo un po’ i suoi diritti civili e permetto alle persone normali di vivere.” In questo senso, Eliyahu ha negato l’apartheid perchè in realtà i palestinesi dei territori occupati vivrebbero in una prigione: “Quando prendi una prigione e ci metti un prigioniero, limiti i suoi diritti. È apartheid?” La domanda retorica è sorprendente perché la risposta è ovviamente sì, soprattutto quando lo si fa a un’intera popolazione civile sulla base della sua etnia o identità, è apartheid.
Una giusta definizione
Per essere più precisi, il termine apartheid viene definito dallo Statuto di Roma del 2002 della Corte penale internazionale come atti disumani di carattere simile ad altri crimini contro l’umanità, commesso nel contesto di un regime istituzionalizzato di oppressione sistematica e il dominio da parte di un gruppo razziale su qualsiasi altro gruppo o gruppi razziali e commesso con l’intenzione di mantenere quel regime.
Chiunque abbia una minima idea di quelle che sono le politiche israeliane nei territori occupati della Palestina non può che concordare sul fatto che queste rientrano pienamente all’interno della definizione di apartheid. Muri di separazione, insediamenti ebraici illegali in Cisgiordania, la demolizione sistematica di case e infrastrutture, il limitato accesso all’acqua e la differenza nell’applicazione della legge tra israeliani e palestinesi sono solo alcuni esempi di apartheid in Palestina.
Tanti in Israele, tuttavia, continuano a rifiutare tali accuse. Primo tra tutti proprio il governo israeliano che ha reagito molto male alle dichiarazioni di Pardo affermando che “invece di difendere Israele e le forze armate israeliane, Pardo calunnia Israele” e che “dovrebbe vergognarsi”, aggiungendo che i cittadini arabi e quelli israeliani godono degli stessi diritti nel Paese.
L’elefante nella stanza
Pardo si aggiunge, come già accennato, a una lunga lista di accademici e personalità culturali di tutto il mondo che hanno firmato una lettera aperta in cui denunciano lo stato di apartheid nei territori occupati.
Quest’anno, le forze di sicurezza israeliane e i coloni ebrei illegali hanno ucciso almeno 208 palestinesi, tra cui 36 bambini. Oltre all’escalation della violenza, il governo israeliano ha anche continuato ad annettere sempre più terra palestinese per approvare la costruzione e l’espansione di centinaia di insediamenti illegali in grave violazione del diritto internazionale.
La lettera intitolata “L’elefante nella stanza” evidenzia il “collegamento diretto tra il recente attacco di Israele al sistema giudiziario e la sua occupazione illegale di milioni di palestinesi nei Territori palestinesi occupati.” Inoltre dice che “al popolo palestinese mancano quasi tutti i diritti fondamentali, compreso il diritto di voto e di protesta. Affrontano violenze costanti: solo quest’anno, le forze israeliane hanno ucciso oltre 190 palestinesi in Cisgiordania e a Gaza e demolito oltre 590 strutture. I vigilanti dei coloni bruciano, saccheggiano e uccidono impunemente.”
La lettera è stata interpretata come uno sviluppo significativo, in particolare grazie al gran numero di intellettuali ebrei che l’hanno firmata. Il suo principale esponente, il professor Omer Bartov, uno dei più rispettati studiosi dell’Olocausto degli Stati Uniti, ha infatti dichiarato che “l’inclusione di un ampio spettro di voci ebraiche illustri, indica un momento spartiacque anche nelle opinioni ebraiche americane su Israele, e una nuova volontà da parte delle figure pubbliche, che riflette i sentimenti delle giovani generazioni, nel criticare onestamente le politiche israeliane.”
Bisogna ricordare però che molte organizzazioni internazionali già da tempo hanno denunciato le gravi violazioni dei diritti umani in Palestina, ricevendo in cambio il silenzio della comunità internazionale che troppo spesso è rimasta indifferente, facendo finta di non vedere. Salvaguardare l’ordinamento giuridico internazionale significa applicare i principi in modo uniforme e coerente a livello globale e questo significa includere anche il conflitto israelo-palestinese. L’inerzia della comunità internazionale potrebbe avere implicazioni di vasta portata nella regione, pertanto è fondamentale che il consenso riguardo l’illegalità e l’immoralità di oltre cinque decenni di occupazione costituisca la spina dorsale delle politiche internazionali che governano le relazioni con Israele.