In una temperie sempre più profondamente caratterizzata da frenesia e produttività, è necessario ritrovare momenti di autentico e ragionato indugio. Bisogna tessere alternative al meccanismo gareggiante che rende l’attuale congiuntura un’epoca della competizione. Occorre volgersi a quegli itinerari di effettiva ricerca di perfezionamento del sé e del mondo.
Ad oggi, confrontarsi con il difficile di cui è intessuta l’esistenza umana, è una pratica da eludere. Suppone dispendio, fatica ed una temporalità opportuna. In superficie non risponde ai pilastri portanti della postmodernità: efficacia ed efficienza. Ed è quindi, almeno ad un primo sguardo percettivo, un operare poco produttivo nell’epoca della competizione. L’indugio intacca l’istantaneità del risultato finale. Scalfisce la precisa procedura da seguire in termini puntuali, circoscritti, precostituiti. La dimensione aporetica pone in discussione la chiusa realizzabilità dell’obiettivo da perseguire.
In profondità, poi, il difficile ha da sempre tormentato l’uomo. L’enigma, il mistero, la complessità sono concetti di complicata gestione, di difficile digeribilità. Eppure, a livello più o meno conscio, sono fondamentali aspetti dell’esistenza che si attraversano ininterrottamente.
Risulta, di certo, più comodo affidarsi a giochi psicologici che estromettono complessità ed asperità dell’esistenza. Così come appare più “a passo con i tempi”, un’organizzazione competitiva del proprio stare al mondo. Almeno se, come generalmente accade, ogni riuscita o meno dei propri progetti è appannaggio del fare individuale. È dubbio, però, che in una tale impostazione dell’esistenza umana, dell’umanità si conservi lo spirito. Da qui il punto focale della questione. Se e in che misura, la nevrotica corsa a primeggiare nel frenetico teatro della competizione, si accorda nei fatti ad un itinerario di ricerca e miglioramento del sé e del mondo?
COMPETIZIONE A PIÙ LIVELLI
Di competizione sono intrisi l’odierno apparato dell’informazione, l’attuale impalcatura dell’industria culturale, la quotidianità del corpo collettivo. A più livelli, più o meno serrati, si è sottoposti ad un costante giudizio valutativo di trionfo e sconfitta. In questa cornice, generalmente, la vittoria dell’uno coincide con la disfatta dell’altro. Accade questo nel mondo economico-finanziario e, in scala minore, nell’impostazione aziendalistica del lavoro. Accade ciò nell’alveo di ciò che può essere definita, senza troppa esagerazione, l’epoca della competizione, della performance. Resta da capire se tale stato di cose permetta, e in caso affermativo in che misura, di rivolgersi anche ai contenuti del proprio agire. E non solo alla coerenza tra premesse e risultato.
Il fatto è che se il competitor risulta essere il naturale agente che sgorga da precise strutture, che di competizione si alimentano, resta da soffermarsi sulla valenza tout court di un’impostazione prassica fermamente concorrenziale. La domanda si pone su più piani che finiscono, nella loro evoluzione, per intersecarsi. In prima battuta, è interessante sostare sui motivi che giustificano una così diffusa presenza di strette competizioni nell’alveo della ricerca e del fare artistico-culturale. Il mondo dello spettacolo – ci siamo ormai da tempo abituati – segue logiche di sistema improntate sull’audience. In questa cornice l’elevato tasso di competizione svolge un ruolo centrale e ben preciso. Per quanto la questione sia molto più complessa, almeno l’abitudine dovrebbe renderla maggiormente comprensibile. Non occorre andare chissà quanto in profondità nel volgere lo sguardo su talent, concorsi e festival che affollano le programmazioni televisive.
In parte diverso è il sistema a premi che regola il mondo letterario, poetico, artistico, oltre che musicale. La questione è tanto intricata da meritare, sul piano dell’analisi, un’opera a parte. Negli ultimi anni si assiste, poi, ad un’espansione dello spirito della competizione verso altri universi.
LA COMPETIZIONE FILOSOFICA
Ultima, almeno per risonanza, la competizione filosofica internazionale che ha visto trionfare una studentessa italiana, alla quale vanno i nostri complimenti. È, però, doveroso sostare debitamente sull’accaduto.
In primo luogo, si scompagina un interrogativo strutturale. Se e quanto risulta proficuo che la ricerca filosofica – al pari dell’espressione artistica – possa costituirsi come oggetto di giudizio tecnico? In altre parole: cosa viene valutato passibile di merito o meno? A quali criteri si ispira un giudizio che porta ad un “trionfo” ed a tante relative “sconfitte”?
E da ciò, sgorga naturalmente il secondo quesito. Senza dubbio il più importante, fondamentale ed originario. Tale per ciò che filosoficamente significa ritornare, in maniera sempre più originaria, su quanto è già stato frequentato dal pensiero. E, sulla base di ciò, tentare di approssimarsi alla complessità dell’intero. Tendere in modo asintotico alla verità.
Per abitare l’interrogativo in questione tocca, però, entrare nel merito dei contenuti del breve saggio filosofico che, a livello mondiale, si è imposto. Lo si fa senza polemica alcuna – che non appartiene a chi scrive. Né volendo, con ciò, in alcun modo giudicare l’attuale campionessa mondiale di filosofia. Per quanto quest’ultima definizione risulti perlomeno stravagante. Probabilmente, però, non quanto basta per destare un movimento di pensiero nell’epoca della competizione. La discussione vuole, invece, configurarsi come un confronto tra logoi diversi, proprio come sostenuto dall’autrice del testo. Che si ringrazia per l’invito al dialogo. Ad un confronto nell’apertità del filosofare, appunto.
LA QUESTIONE DEL LOGOS ERACLITEO
Il saggio si articola attorno ad uno dei frammenti che Eraclito dedica alla questione del logos. Non è questa, sicuramente, la sede per addentrarsi in un’interpretazione del passo in questione che si approssimi il più possibile al significato originario. Per farlo, si dovrebbero dedicare pagine su pagine alla questione, riportando i rigorosi contributi sul tema di studiosi ben più navigati di chi scrive.
Perché solo per tentare di abitare questo apparentemente breve frammento eracliteo, è necessario soffermarsi su un ampio spettro di interrogativi preliminari e fondanti. Forse così non è, nell’epoca della competizione.
Accogliere e tentare di elaborare il detto del filosofo di Efeso si configura come una pratica filosofica, filologica, storica, antropologica e cosmologica. In primo luogo, è necessario contestualizzarlo. Vagliare il significato del termine logos nell’opera di Eraclito e nel retroterra filosofico in cui questa si snoda. Il che significherebbe doversi necessariamente volgere sul rapporto tra frammento ed intero nella Grecia arcaica e classica. Nonché, poi, tentare di approssimarsi al rapporto che i greci dell’epoca intrattenevano con il divino. Non ignorando, di certo, la collocazione semantica del frammento in questione nel corpus di Eraclito a nostra disposizione. Una questione complessa, che forse è meglio eludere nell’epoca della competizione.
ABITARE LA COMPLESSITÀ NELL’EPOCA DELLA COMPETIZIONE
Saltare a piè pari questo arduo lavoro di ricerca – qui condensato in uno spettro assai ridotto di domande orientative – significa rischiare di soffocare la riflessione di Eraclito. E, di conseguenza, fraintenderne il senso. Opprimerne la gittata. Discuterla su perimetri che non appartengono al filosofo efesino.
Come l’intendere il suo logos comune nel senso di una mera e semplice «opinione comune». Non nemica, forse. Ma certo diametralmente opposta al concetto di democrazia oggi generalmente diffuso e propinato. Questo sembra emergere dalle dichiarazioni della studentessa vincitrice delle olimpiadi internazionali di filosofia:
Sono partita da una sua citazione: «Sebbene il logos sia comune, la maggior parte delle persone vive come avesse pensieri propri». Ho organizzato il mio testo sul fatto che non c’è un logos comune e che le persone pensano in modo diverso perché sono tutte diverse. È la grande sfida che devono affrontare le democrazie.
Approssimarsi all’opera di Eraclito, ed al relativo concetto di logos, squaderna invece orizzonti di ben altra matrice e gittata. Forse volti a fondare, con maggiore rigore, le stesse – e nobili – tesi sostenute dalla studentessa a supporto delle sfide delle democrazie.
Sostenere lo sfibrarsi di ogni orizzonte comune è una pratica potenzialmente assai pericolosa. Forse non lo è abbastanza, nell’epoca della competizione.
Sulla scorta di ciò, allora, ammettendo la competizione filosofica, resta da chiedersi: si tratta di un esercizio autenticamente filosofico? Di una ricerca tesa alla verità ed alle conseguenti implicazioni nella prassi? O di un evento svolto più sulla scia del parlare che negli orizzonti di un’effettiva pratica di verità? Siamo chiamati ad abitare la complessità anche nella competizione, anche nell’epoca della competizione.
Mattia Spanò