Da Eschilo a Euripide: l’attualità del tragico

l'attualità del tragico

Alle porte della 57° stagione della Fondazione INDA al teatro greco di Siracusa, una domanda riemerge mai del tutto paga di risposte: dove affonda le radici l’attualità del tragico?

Lontani tocchi di campane sfiorano, trasportati dal vento, la bianca pietra aretusea. Provenienti, forse, da un Duomo che reca in sé l’essenza occidentale. Un edificio che dice ciò che siamo: un tempio greco che si fa cattedrale cristiana, in una commistione ancora visibile e viva sul fianco laterale della struttura. Nel corpo architettonico secoli si riannodano, intersecano, intrecciano. Lo stesso accade sui gradoni arenari di un millenario teatro di cultura, dove si rigenera da secoli l’attualità del tragico. Quegli spalti, appunto, lambiti da rintocchi che arrivano da lontano, e lontano portano. Come il cenno di Apollo, che né afferma né nega, ma indica. Sta all’uomo, poi, seguirne gli spunti: davanti ad una chiesa che fu tempio di Atena – e che ne porta ancora i tratti, in una colonna greca incastonata nel corpo laterale – o nell’abitare lo svolgersi di originarie vicende mai del tutto conclusive.

Un esercizio di consapevolezza

Forme ed eventi che sono soglie, fenditure, luoghi di passaggio. Scenari e momenti che sono occasioni di indugio, svolte e tornanti, nell’inesausta impresa umana dello stare al mondo. Decisi, a tratti, certo; ma mai del tutto paghi. Completi, in altri frangenti, ma mai compiuti definitivamente. La compiutezza appartiene alle regioni del divino, all’uomo è dato dialogarci. Che è un modo per specchiarsi e collocarsi da frammenti negli inattingibili orizzonti dell’intero. È un esercizio di consapevolezza al quale siamo chiamati, da granelli di vita caratterizzata gettati nel fluire della vita senza ulteriori caratterizzazioni – che ricomprende in sé animali, uomini e dei. Una seria pratica d’interpretazione, alimentata dal suo stesso limite: l’inesauribilità.

Un portato inesauribile

È il meraviglioso e terribile gioco della vita, che nella tragedia greca accade, rinnovandosi e rinnovando. Sempre attuale, perché il tragico suona le corde di interrogativi originari, decisivi, primi e ultimi. Probabilmente per questo la tragedia greca – così come tutto ciò che si pretende classico – non perde mai terreno in termini di aderenza: perché ci appartiene e a questa noi apparteniamo, ci riguarda in quanto esseri umani. E ne è inesauribile il portato, impensabile la gittata; impensabile perché non può mai essere, nel pensiero, assolutamente ricompresa. Ma solo anelata, agognata, lambita, a volte – rarissimi sono i casi – afferrata nel suo chiaroscurale disvelarsi.

Sfumati i tocchi di campane, è il silenzio a prendere il sopravvento tra i chiari blocchi in pietra di Siracusa. Silenzio d’attesa, d’indugio, di fermento, dal quale emergono la parola e il mondo. Silenzio spezzato da fruscii di vento e da un indomito brusio di vita.

Vita che viene, vita che va, che si allunga e si comprime, che si offende e che resiste, che si vede e che viene vista. Vita fluente nel suo puro imporsi e che si rappresenta, nel risibile scorcio di tempo e di spazio che pertiene a quei frammenti di universo che si auto-comprendono. Insomma, vita umana: pensiero, dialogo, confronto, ricerca, nella meraviglia e nel disincanto. Vita che va in scena, a teatro, al calar del sole. Vita che guarda la vita.

Il mito qui e ora: l’attualità del tragico

Nello svolgersi di ogni rappresentazione tragica, il mito è trasportato qui ed ora. Mito che significa racconto, parola, ma anche realtà, che è riavvolta nel racconto, nella parola: che è evocata. Mito che è ritorno sull’originario, sull’inaudito fondo da cui tutto si squaderna e che tutto giustifica. Abitare la tragedia si configura come un doppio movimento: approssimarsi alle radici e sradicarsi; accasarsi e farsi stranieri; confrontarsi con il sé e con l’altro da sé, con unità e molteplicità, con le parti ed il tutto. La tragedia è occasione, punto d’immissione negli orizzonti del reale, momento di espansione nei meandri più profondi del nostro esserci.

La rappresentazione volge al termine quando il sole, dopo averci danzato, lascia spazio alla luna nella volta celeste. Fragori, enigmatici cori polifonici, scie di sangue, espiazioni, cenni divini, imporsi della necessità. Avvicendarsi di eventi, mescolanza di fatti e vicende esistenziali, incrociarsi di destini, sullo sfondo dell’enigma. È l’epilogo.




Una fine senza fine

La tragedia si conclude, ma mai finisce. La visione si prolunga in chi la vive: il teatro ce lo si porta dietro nel continuo esercizio di approfondimento, affinamento, arricchimento che è la ricerca umana. L’attualità del tragico: ritaglio di tempo opportuno nell’incedere, spesso meccanico, della quotidianità. Movimento di pensiero che, eccedendo il mero perimetro fisico del teatro, si innerva nel mondo. Patrimonio artistico, etico e politico da tutelare, vivere e vivificare.

Quest’anno tocca all’Agamennone di Eschilo, all’Edipo Re di Sofocle ed all’Ifigenia in Tauride di Euripide, squarciare una fenditura teoretica e vitale. Regie rispettivamente di Davide Livermore, Robert Carsen e Jacopo Gassmann. Alla ormai 57° stagione della Fondazione INDA al meraviglioso e terribile teatro greco di Siracusa. Dove secoli si riannodano, intersecano, intrecciano, tra la bianca pietra aretusea e lontani tocchi di campane che inaugurano la scena. Poi il tragico, il proteiforme gioco cromatico di tramonto e voci, ed il mai del tutto conclusivo epilogo. L’attualità della vita che guarda la vita: l’attualità del tragico.

Mattia Spanò   

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