Nonostante il diritto alla difesa sia garantito dalle leggi in vigore, l’assistenza linguistica in tribunale in Italia resta ancora un problema da risolvere: tra compensi inadeguati per gli interpreti e un’assenza di requisiti obbligatori per questa professione, il rischio è che l’uguaglianza di fronte alla legge resti solo una frase fatta.
L’articolo 143 del Codice di Procedura Penale italiano stabilisce il diritto degli imputati ad avvalersi di un interprete, in modo da essere in grado di capire le accuse che sono loro rivolte e potersi difendere di conseguenza. La situazione odierna, però, mostra un quadro diverso, in cui l’assistenza linguistica in tribunale fornita agli accusati è spesso carente e improvvisata, generando casi di discriminazione.
L’imputato che non conosce la lingua italiana ha diritto di farsi assistere gratuitamente, indipendentemente dall’esito del procedimento, da un interprete al fine di poter comprendere l’accusa contro di lui formulata e di seguire il compimento degli atti e lo svolgimento delle udienze cui partecipa. Ha altresì diritto all’assistenza gratuita di un interprete per le comunicazioni con il difensore prima di rendere un interrogatorio, ovvero al fine di presentare una richiesta o una memoria nel corso del procedimento.
— Art. 143 del Codice di Procedura Penale italiano
Le cause che portano a questa situazione sono diverse. La prima è di tipo normativo, ed è l’assenza di un documento che stabilisca dei requisiti formativi obbligatori per gli interpreti legali, o di un registro nazionale per questa professione. Di conseguenza, spesso questo lavoro viene affidato a persone prive di adeguate conoscenze giuridiche o della formazione necessaria nell’ambito delle tecniche di interpretazione previste durante un procedimento penale. Ciò accade soprattutto nel caso delle lingue di minoranza, dove “essere madrelingua” viene privilegiato rispetto agli altri requisiti, fatto che va però a discapito della qualità dell’assistenza linguistica fornita all’imputato, e che può quindi influenzare il risultato del processo.
Il secondo motivo è la retribuzione prevista per gli interpreti e i traduttori che lavorano in tribunale: i compensi attuali per questa professione sono infatti molto bassi rispetto alla media europea, scoraggiando quindi i professionisti dall’intraprendere questa carriera. Il problema del salario è direttamente legato a quello della considerazione da parte della società: i lavori che hanno a che fare con gli ambiti che sono reputati meno prestigiosi, infatti, hanno di solito retribuzioni inferiori.
Questa situazione porta spesso all’impossibilità per gli imputati che non padroneggiano la lingua italiana di avvalersi di un diritto sancito non solo dal Codice Penale, ma anche dalla Direttiva 2010/64 del Parlamento Europeo, che è stata sottoscritta dall’Italia. Un esempio è quello del processo ai membri dell’equipaggio della nave SAR Iuventa nel 2022, dove per due volte al capitano non è stata fornita un’assistenza linguistica adeguata durante l’interrogatorio (al posto di un interprete qualificato, sono stati impiegati prima una guida turistica, poi un poliziotto in pensione). In seguito a questo episodio e al conseguente lancio da parte di Iuventa crew dello hashtag #NoTranslationNoJustice!, la presidentessa di EULITA, l’Associazione Europea di Interpreti e Traduttori Legali, ha rilasciato una conferenza stampa in cui critica l’accaduto e invita il Ministero della Giustizia italiano ad attivarsi per risolvere un problema che genera discriminazioni nell’ambito dei processi penali. Viene però da domandarsi quanti casi simili non abbiano ricevuto la stessa attenzione da parte dei media, a causa dell’impossibilità per gli indagati di avvalersi dei mezzi disponibili a un’organizzazione come Jugend Rettet, la ONG proprietaria di Iuventa.
L’Italia è stata la destinazione di una lunga serie di flussi migratori a partire dagli anni ‘60: è evidente che in questi decenni è sempre mancata la volontà politica di far fronte a un problema che va a ledere i diritti umani. L’assistenza linguistica in tribunale, infatti, è una necessità per garantire l’uguaglianza nei procedimenti legali e la sua assenza porta a un’ulteriore marginalizzazione di persone che sono già criminalizzate dai media e che si ritrovano, letteralmente, nell’impossibilità di far sentire la propria voce.