Dopo i primi fallimenti, con la mediazione di Bruxelles i negoziati tra Pristina e Belgrado sulle targhe hanno avuto successo. Il Kosovo può tirare un sospiro di sollievo o la spada di Damocle della Serbia continuerà a incombere sulla sua testa?
Nel fiume Ibar l’acqua continua a scorrere incessante, noncurante di quello che accade fuori dai suoi argini. I due ponti che la attraversano collegano Kosovska Mitrovica alla sua parte settentrionale, Mitrovica Nord; due città in una, la prima appartenente alla Repubblica del Kosovo, l’altra al Kosovo del Nord. Negli ultimi mesi il confine tra i due territori era diventato caldissimo, rischiando di provocare un altro spargimento di sangue in una regione affamata di pace, che da decenni non conosce tranquillità né sicurezza. Sia l’UE che l’Italia, in cui la presenza di comunità albanesi è molto forte, si sono impegnate nel favorire una soluzione pacifica alla crisi. Ora le ultime dichiarazioni del raggiungimento di un accordo tra il premier kosovaro Albin Kurti e il presidente serbo Aleksandar Vučić allontanano lo spettro di un nuovo conflitto. È l’inizio di una relazione pacifica o solo una breve parentesi?
Questione di documenti
Le ostilità iniziano a fine luglio del 2022, quando il premier Kurti annuncia l’approvazione di una legge che vieta l’ingresso nel paese con documenti serbi, e impone l’obbligo di utilizzare targhe kosovare per tutti i veicoli. Dunque niente più targhe serbe, tanto care a Belgrado e tanto utili per affermare la propria autorità su un territorio che non vuole riconoscere come indipendente. I kosovari del nord, serbi e diretti interessati della norma, si ribellano: bloccano strade, ponti e fanno partire alcuni spari contro la polizia. Si rischia lo scontro diretto, ma grazie all’intervento dell’ambasciatore americano Jeff Hovenier l’entrata in vigore della legge viene rimandata; prima di un mese, poi fino all’1 novembre.
A fine ottobre, il governo del Kosovo decide di implementare la legge in tre fasi: una iniziale di avvertimento, fino al 21 novembre, seguita da altre due in cui si faranno multe e verranno sostituite le targhe dei veicoli non in regola.
Today our Govt approved gradual implementation of the policy on illegal license plates announced in June, which our int'l partners confirm is fully compliant w/ Brussels agreement. The implementation decision ensures rule of law on the one hand, and peace & security on the other. pic.twitter.com/TXV67JpAVw
— Albin Kurti (@albinkurti) October 29, 2022
Intanto la tensione arriva alle stelle, e il 22 novembre l’Unione Europea cerca di portare Kurti e Vučić al tavolo dei negoziati per trovare una soluzione. L’alto rappresentante UE per gli affari esteri Josep Borrell fa una proposta: il Kosovo può rimandare la legge per l’ennesima volta; in cambio la Serbia smette di produrre nuove targhe per i kosovari del nord. Inizialmente Kurti rifiuta le condizioni e i colloqui falliscono. È comprensibile, la proposta serve per stemperare la tensione e non per risolvere definitivamente l’incidente diplomatico. Ma nella serata di mercoledì 23 novembre lo stesso Borrell annuncia il buon esito delle trattative:
We have a deal!
Very pleased to announce that Chief Negotiators of #Kosovo & #Serbia under EU-facilitation have agreed on measures to avoid further escalation and to fully concentrate on the proposal on normalisation of their relations.
— Josep Borrell Fontelles (@JosepBorrellF) November 23, 2022
Per il momento il pericolo è scampato, anche se questo a Pristina potrebbe non bastare. Senza il riconoscimento della sua sovranità, uno Stato non può funzionare. E i kosovari hanno bisogno di una base solida su cui poter costruire il loro futuro.
Una storia difficile
Il Kosovo non è nuovo alle ingerenze nel suo territorio da parte di un paese straniero. Sotto il dominio prima dell’Impero Ottomano e poi del regno di Serbia, nel 1919 la regione entrò a far parte del neonato regno di Jugoslavia. Iniziò così uno dei momenti più scuri della storia kosovara: le autorità jugoslave misero in atto un processo di ricolonizzazione, una vera e propria pulizia etnica con la quale metà della popolazione albanese venne espulsa e sostituita da famiglie di origine slava.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale la Federazione Socialista subentrò al Regno e i nuovi dirigenti comunisti perseguitarono gli albanesi indicandoli come collaborazionisti dei tedeschi. Negli anni successivi il Kosovo godette di qualche beneficio da parte del governo centrale, come gli investimenti nel settore industriale e l’apertura dell’Università di Pristina; furono dei tentativi per risollevare la sua economia, disastrata già da allora. Alla morte di Tito, fu una delle regioni che subirono di più la rinascita del nazionalismo serbo: alcuni storici revisionisti infatti iniziarono a pubblicare opere con l’intento di dimostrare come in quel territorio l’unica minoranza vittima di repressione fosse quella slava.
Le parole lasciarono il posto ai fatti quando negli anni ’90 Slobodan Milošević, presidente della Serbia provocò la disgregazione della Jugoslavia e condusse degli attacchi contro Slovenia, Croazia e Bosnia prima di scatenare nel 1999 una vera e propria guerra nella provincia kosovara. Milošević si era già macchiato di molti crimini di guerra (uno tra tutti il massacro di Srebrenica in Bosnia), e la battaglia che portò avanti contro l’UÇK, l’esercito di liberazione popolare del Kosovo, non ha risparmiato vittime civili innocenti. In un’operazione al villaggio di Račak vennero massacrati 45 cittadini albanesi inermi, falsamente ritenuti parte dell’organizzazione.
Quale futuro?
Oggi la Repubblica del Kosovo è uno dei territori più poveri al mondo. La precarietà del suo status come nazione allontana investimenti e lo condanna all’incertezza economica, mentre i suoi abitanti soffrono la disoccupazione e la mancanza di servizi pubblici efficienti. Sicuramente il successo degli ultimi negoziati fa ben sperare riguardo al distendersi delle tensioni, ma ai kosovari serve ben altro. Serve un posto dove vivere e non sopravvivere, dove la corruzione non si infiltri in qualsiasi ramo dell’amministrazione pubblica, dove nessuno abbia la pretesa di eliminarli come popolo e di cancellare la loro cultura. E l’Europa deve continuare con ogni mezzo a mediare, a sostenere e a difendere le richieste di un popolo che ha sofferto per troppo tempo.