Ecco perché Kobe Bryant è stato un emblema per la generazione degli anni ’90

ultima voce perchè Kobe Bryant

Immaginate un mondo senza telefoni. Senza Iphone, senza streaming. Un Internet accessibile, ma del quale non si conoscevano le infinite possibilità che hanno cambiato la storia del mondo negli anni seguenti.  Immaginate di sentire il racconto di un gesto magnifico, senza la possibilità di vederlo con un click.

Immaginate. Perché così, noi ragazzi nati a metà degli anni ’90, nati prima o poco dopo del suicidio di quella che era la più grande rockstar del momento, Kurt Cobain, abbiamo vissuto la nostra infanzia. Senza la possibilità di connetterci, ma con l’occasione di immaginare.

Per chi ha amato il basket, o lo sport in generale, in quei tardi anni novanta che si dileguavano nel nuovo millennio c’era un giocatore che era sempre presente, nel bene e nel male, nei resoconti cestistici del weekend che si potevano guardare solo grazie alla mezz’ora del sabato che ci regalava NBA Action. I più fortunati potevano seguire la NBA tramite la pay tv, i più sfortunati potevano vedere in chiaro le finali in differita di un paio di giorni.

Il web non era un calderone di notizie, e se desideravi saperne di più la conseguenza più immediata era l’acquisto di riviste dedicate quali Superbasket, American Superbasket, Dream Team. Il tutto nel faraonico sforzo di salire sulla propria bicicletta, andare all’alimentare-edicola del paese, prendere il latte e il succo e chiedere: “ Hai American Superbasket?” L’edicolante, allora, ti guardava come a chiederti che cosa fosse, e poi scusandosi, diceva: “Non te lo posso vendere, sei troppo piccolo per le signorine nude”. Provavi, in realtà, a spiegargli che era una rivista di basket e allora lui rispondeva: “ Ma non te puoi comprà pure tu i Pokémon?” e, se andava bene, te lo faceva arrivare.

Tutti i giornali di basket, tutte le puntate diNba Action, avevano in comune una cosa; nonostante i nomi di molti giocatori si susseguivano ce n’era sempre uno che non cambiava mai: Kobe Bryant.
Nel 2000 Kobe vinse il suo primo titolo; i Lakers sconfissero gli Indiana Pacers per 4-2, eppure il titolo di MVP delle finali andò a un altro giocatore, Shaquille O’Neal che, ai nostri occhi infantili, appariva come un gigante buono ma che era meglio non far arrabbiare.
Sin da quel momento intuimmo che quel Kobe era “forte” (usando il termine tecnico usato dai bambini per indicare chi conosce bene quello che gli allenatori rilegano sotto l’etichetta di fondamentali, ossia la parte più noiosa, faticosa ma più utile dell’allenamento), ma non è che potevamo fidarci fino in fondo… per un motivo ben preciso: Space Jam.

Space Jam è un film di JoePytka uscito nel 1996 che ha sognato inesorabilmente la mia generazione, dove attori e in carne e ossa si mischiavano ai Looney Tunes, personaggi animati della Warner Bros, tra i quali Bugs Bunny e DaffyDuck.
I LooneyTunes, nella pellicola, dovevano sfidare i Monstars, piccoli alieni che avevano rubato il talento a cinque giocatori tra i più forti della Nba, per conquistare la libertà. I Looney si rivolsero, per affrontarli, al giocatore più forte di tutti i tempi: Michael Jordan, il quale, con un’iconica schiacciata da metà campo, li avrebbe portati alla vittoria.

Michael Jordan. Ripetevamo questo nome con ammirazione e tristezza. Con ammirazione perché lui era il più forte; aveva fatto il culo ai Monstars, in pratica, da solo. Con tristezza perché quella era la sua unica partita che ci eravamo goduti. Insomma; a sentire i nostri padri il più grande c’era stato, ma noi non eravamo riusciti a vederlo.
Ecco, Kobe Bryant era forte, aveva vinto un anello con Shaq, ma non aveva sconfitto i Monstars.
E poi… ci sarebbe stato l’anno seguente?

C’era anche Allen Iverson, un ragazzo piccolo con le treccine che dimostrava, a noi bambini, che non dovevi essere per forza alto per poter vincere. Era stata la prima scelta nel draft del 96, draft dov’era stato scelto anche Kobe.
Nel 2001, i Philadelphia 76ers di Iverson, giocarono in finalecontro i Lakers di Kobe e Shaq.
Kobe vinse ancora. La serie si concluse 4-1. Sì, non era un caso. Era davvero forte.

Iniziammo a seguirlo più spesso, cibandoci delle sue azioni, attendendo il sabato per vederlo e chiedendo ai nostri compagni di squadra: Vincerà anche quest’anno?
Nel 2002 vinse ancora grazie a una semifinale in gara7 da 31 punti contro i Sacramento Kings, e a una la finale vinta contro i New Jersey di Jason Kidd che permisero a Phil Jackson, l’allenatore dei Lakers, di ripetere il three-peat già ottenuto con i Bulls.

Tre titoli di fila. Una media punti sempre più alta, un’arroganza che aveva il suo statuto d’essere, e un sorriso che non smetteva di brillare.

Alla fine di quella che sembrava essere una favola subentrarono però le difficolta. Un’accusa di stupro e la rottura con Shaq. Il rapporto con Shaq era simile a quello tra Richards e Jagger, ma la loro rottura fu accusata dai fan come quella tra Lennon e McCartney. Ora Kobe era da solo.

Gli anni fino al 2009 furono anni di transizione, anni di un maestoso solista, ma che si riscoprì direttore d’orchestra grazie all’innesto di Pau Gasol, che fece tornare i Lakers alle Finals.
Perse con Boston, ma gli anni successivi vinse due titoli. Nel 2009 e nel 2010.

C’è una caratteristica che intercorre tra il 2000 e 2009 e che differenzia Kobe, rimasto sempre fedele alla dinastia dei Lakers, rispetto agli altri giocatori: Kobe c’è sempre stato. Sempre.
Forse non ha vinto, ma c’è sempre stato. Mentre il mondo cambiava, mentre ci anestetizzavamo sempre un po’ di più, lui si è sempre improntato sul miglioramento, sulla sfida, sul far crescere i propri compagni.

C’era chi diceva che senza Shaq non avrebbe più vinto, ma lui ha preso sulle spalle una squadra traghettandola alla vittoria. Kobe Bryant, in definitiva, non è mai scomparso, e non è mai scomparso per due motivi; non solo perché era il più forte, ma perché ha lavorato per esserlo.
Quegli anni furono anni di stacanovismo cestistico, solitudine, nel quale tutti ci domandavamo: riuscirà a vincere senza Shaq? È un campione, oppure un maestoso secondo violino ancillare a qualcuno?
Aveva già vinto più di tantissimi altri giocatori. Si sarebbe potuto fermare. Tre titoli, tre anni di fila. Ma Kobe si vedeva ai suoi occhi come un perdente. Doveva vincere di nuovo, doveva vincere da leader, doveva vincere perché si era promesso così.

Nella solitudine della palestra, alle cinque del mattino, mentre il resto dei giocatori era ancora a letto, Kobe Bryant si allenava.
Allen Iverson racconta di questo aneddoto:
Kobe andò a trovarlo in hotel e, seduti a un ristorante, gli chiese: –Cosa fai stasera?
Iverson rispose: – Vado al club, tu?
Kobe rispose: – Vado in palestra.

E così è Kobe. Così è la “mamba mentality“. Mamba, soprannome che fece suo dopo aver visto Kill Bill vol.2 e avendo notato analogie tra i movimenti d’attacco del serpente e i suoi in area.
Gli anni del limbo sono stati necessari per rivedere la luce, per costruire di nuovo,per vincere ancora, prima che l’infortunio (uno dei 22!) al tendine d’Achille, come l’eroe più forte degli Achei, iniziasse a far calare il sipario su quello che era stato il nostro primo grande campione.

Quindi… perché Kobe? Perché c’è sempre stato. Perché quando non avevamo un telefono per vedere le sue giocate, i suoi fadeaway, li potevamo solo immaginare… e pur facendolo non saremmo riusciti a immaginarli così poetici.
Perché Kobe? Perché quando si infortunò al polso era solito andare in palestra e allenare la mano debole, per migliorare. Ha sfruttato l’infortunio per migliorare. Far sì che la sofferenza ci elevi. Non è questo, in fondo, quello che proviamo a fare ogni giorno?
Perché Kobe? Perché ci ha accompagnato. Non ha sempre vinto, ma non ha mai cessato di lottare per la vittoria.
Perché Kobe? Perché è riuscito a indirizzare le retrovie di ego troppo vasto a favore di un insegnamento collettivo. Perché si vince insieme, ma l’esempio del singolo può essere la motivazione del collettivo.
Perché Kobe? Perché il suo segreto era proprio quello. Regalarci di più rispetto a quanto l’immaginazione ci ha concesso.
Perché Kobe? Perché anche noi potremo dire ai nostri figli, come ci raccontavano i padri ai nostri tempi, di aver visto il più forte.

Perché se nel silenzio di un campetto, mentre la palla partiva dalle nostre mani, abbiamo sentito il boato della folla è stato solo grazie a lui. Perché se quando tiriamo, gridiamo ancora “Kobe!” come da bambini, scoprendoci campioni quando la palla danza sul ferro è grazie a lui.
Perché il poster che abbiamo in camera ora è un po’ scolorito, ha qualche taglio e forse dovremmo cambiarlo. Eppure sapremo che rimarrà sempre lì, appeso al muro della nostra infanzia, a ricordarci che anche noi siamo stati capaci di sognare. Anche noi siamo stati capaci di sorridere.
Ecco, perché Kobe Bryant.

 

Edoardo Maspero

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