Lettera dal carcere di Khalid Arslan: l’accusa di scafismo come arma contro i migranti

Khalid Arslan scrive una lettera dal carcere contro le accuse di scafismo perla strage di Cutro

Per il processo contro presunti scafisti del caicco Summer Love naufragato di fronte al litorale di Steccato di Cutro a febbraio 2023 vi è anche Khalid Arslan, giovane pakistano di 26 anni accusato di scafismo esclusivamente per aver tradotto delle informazioni ad alcuni migranti sull’imbarcazione. Durante l’udienza del 6 novembre 2024, il Tribunale di Cutro ha chiesto 14 anni di detenzione per il giovane migrante.

L’accusa di scafismo contro Khalid Arslan

Khalid Arslan è un ragazzo di 26 anni, partito dal Pakistan nel 2016, ad appena 18 anni, alla volta dell’Europa, pagando 7mila dollari per intraprendere la rotta jonica, rotta migratoria che via mare collega le coste dalla Turchia a quelle italiane, in particolare alla Calabria. Una rotta estremamente pericolosa e mortifera, su cui anche nel 2024 si sono verificate decine di vittime e dispersi.

Khalid Arslan è accusato insieme ad altri due uomini di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e naufragio colposo. L’accusa di scafismo sarebbe dovutaa un ruolo organizzativo ricoperto dai tre migranti durante il viaggio tra la Turchia e la Calabria. Per loro, considerati l’equipaggio della barca, il rito è ordinario, condannate in abbreviato invece le persone che conducevano il caicco durante l’attraversata.

«Non sono scafisti veri e propri ma hanno avuto un ruolo attivo nella gestione dei passeggeri del caicco naufragato a Cutro, anche se la loro responsabilità nel naufragio non è equiparabile a quella di chi guidava la barca»

ha dichiarato Pasquale Festa, pm del Tribunale di Cutro nel corso della requisitoria.

L’accusa di scafismo per semplici traduzioni

Khalid Arslan in aula il 6 novembre, si era già difeso dichiarandosi innocente e raccontando una storia che fa emergere la pericolosità delle accuse di scafismo, in particolare quando il ruolo ricoperto dagli accusati è di esclusivo supporto e non completamente chiaro. Nei giorni seguenti, in una lunga lettera scritta dal carcere, il giovane pakistano racconta la sua versione dei fatti, in una disperata richiesta di essere creduto. Perché anche se a Khalid Arslan è stato riconosciuto esclusivamente un ruolo da traduttore, tanto basta perché risponda di 12 bis, reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, accusa che, secondo le norme europee della Corte di giustizia, equivale a rischiare 14 anni e 4 mesi di carcere. 14 anni per avere tradotto in turco delle informazioni per i migranti a bordo del caicco.

«Alcuni migranti litigavano tra loro perché volevano salire sopra la barca. Gli scafisti hanno chiesto chi parlava la lingua turca. Gli altri migranti hanno indicato me e chiesto di aiutarli. Altri migranti hanno litigato con me se non facevo l’interprete. Tutti gli afgani chiamavano me. Se non facevo l’interprete c’era il rischio di cominciare una rissa e di morire tutti in mare. Ma io non sapevo che fare l’interprete potesse costarmi così, che può costarmi 14 anni di carcere. Fatemi capire: aiutare le persone deboli è un reato di favoreggiamento? Ho sbagliato a fare questo: se ora vedrò qualcuno che muore davanti a me potete stare certi che faccio finta di essere cieco, sordo e muto»

scrive Khalid Arslan nella lettera consegnata al presidente del Tribunale. La lettera racconta di una persona che si è offerta come mediatrice per spiegare la situazione ai migranti sul caicco sovraffollato, costretti a giorni di navigazioni in un clima di paura e tensione. In gioco c’è la propria vita, il proprio futuro. Come quello di Khalid Arslan che ancora dichiara di essere un migrante che come tutti gli altri ha pagato 7mila euro per percorrere la rotta jonica e che probabilmente nei momenti di tensione ha utilizzato la propria conoscenza del turco per tranquillizzare e coordinare i compagni di viaggio. Di quei 7mila euro, prestati da uno zio in Pakistan, ci sono le ricevute del deposito, soldi che il giovane dovrà restituire.

«Ho rischiato la mia vita per salvare gli immigrati in difficoltà, fossi stato uno scafista sarei scappato. Io mi sono buttato in acqua a salvare le persone […], Ho pagato settemila dollari, non per andare in galera, ma per il mio futuro».

Nella lettera, scritta con diversi colori per sottolineare i concetti importanti, Khalid Arslan racconta ancora di video che testimoniano la sua posizione inattiva sul caicco, sostenendo che se fosse stato uno scafista non avrebbe postato i video su Tiktok dell’attraversata, ricordando di aver tirato fuori dall’acqua cinque persone sulla spiaggia di Steccato di Cutro. La sensazione che questa lettera lascia è quella di un giovane che dopo 8 anni in cammino, in Italia non trova finalmente un’altra vita, ma un’accusa di scafismo che lo condannerebbe a 14 anni di carcere. Emerge la storia disperata di una persona giovanissima alla ricerca della felicità, accusata per aver fatto ciò che riteneva giusto mentre rischiava la vita durante un’attraversata che ha poi provocato la morte di 94 persone, tra cui moltissimi bambini. «Questo viaggio ha mangiato otto anni della mia vita, dal 2016 fino al 2023”, scrive. “Io volevo solo venire in Italia per stare con mio fratello ed essere felice». Emergono sogni infranti, accuse esagerate che ignorano la complessità della situazione, criminalizzando chi, in condizioni disperate, si è limitato a fornire un supporto linguistico in un contesto di sopravvivenza.

La decisione finale che spetta ai pm è stata fissata per il 20 novembre, decisione che, si spera, verrà influenzata anche dalle informazioni emerse dalla lettera di Khalid Arslan.

Le accuse di scafismo in Italia: una strumentalizzazione contro i migranti

Nella cronaca e nelle notizie sull’immigrazione in Italia si è spesso sentito parlare di scafismo. Ma in che cosa consiste un’accusa di scafismo? La definizione di scafista non è chiara ed è molto generica, permettendo di identificare come tali persone che non centrano nulla con gruppi criminali che organizzano i viaggi e che spesso semplicemente ricoprono ruoli di supporto o gestione di alcuni aspetti del viaggio durante l’attraversata, in momenti in cui non ci si può tirare indietro o in cui le proprie capacità possono rivelarsi una salvezza per tutte le persone a bordo delle imbarcazioni. Le continue accuse di scafismo nei confronti di migranti che arrivano sulle coste italiana, sembrano spesso esclusivamente atti per mostrare la lotta contro le “migrazioni irregolari”, una strumentalizzazione per criminalizzare innocenti e per motivare politiche razziste e repressive, accuse per trovare un capro espiatorio contro cui mobilitare odio e per far apparire le azioni del governo come giustificabili. Ma bisogna sempre ricordarsi che c’è un’enorme differenza tra chi fa parte di reti internazionali che organizzano i viaggi attraverso il Mediterraneo o la rotta balcanica e le decine di persone accusate di scafismo spesso esclusivamente per essersi rese utili sulla rotta.

Un esempio di queste accuse spesso aleatorie e supportate da prove estremamente deboli è stato il caso di Maysoon Majdi, donna iraniana arrestata nel dicembre 2023 con l’accusa di scafismo per aver distribuito cibo e acqua a bordo dell’imbarcazione su cui viaggiava, recentemente scarcerata dopo dieci mesi di detenzione assolutamente ingiustificati.

Ma come Maysoon, sono migliaia le persone che sono state ingiustamente accusate di scafismo, 2.500 negli ultimi 10 anni come è emerso nel rapporto “Dal mare al carcere” scritto dall’Arci Porco Rosso, Alarmphone e Border Europe, spesso esclusivamente per aver condotto la nave per alcuni tratti.

Sorte toccata a Mohammed, originario della Sierra Leone, accusato di scafismo nel 2016 perché identificato come mozzo della nave su cui viaggiava; o di Cheikh Sene, arrestato per aver condotto un’imbarcazione dalla Libia a Lampedusa; e ancora di Moussa, arrivato in Italia nel 2015, accusato di scafismo sempre per aver retto il timone.

Accuse strumentalizzate, spesso avanzate senza prove, accuse che non analizzano il contesto, che non non tengono conto delle situazioni e delle condizioni delle persone che attraversano il Mediterraneo. Accuse che rischiano di condannare a 14 anni di carcere Khalid Arslan, colpevole di aver tradotto informazioni ai suoi compagni di viaggio. Accusato forse semplicemente per distogliere l’attenzione dai veri colpevoli di quel tragico naufragio del 26 febbraio 2023, in cui i mancati soccorsi, le negligenze dell’autorità italiane a, ancora una volta, il menefreghismo nei confronti di vite evidentemente non ritenute meritevoli di salvezza, hanno condannato alla morte 94 persone. Morti che tutti avremo sulla coscienza. Tutti, tranne forse Khalid Arslan, che a quell’incubo è sopravvissuto esclusivamente per poi viverne un altro in quella terra in cui cercava solo la felicità.

Arianna Locatelli

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