Il premio come “Wire photographer of the year” per il 2017 assegnato dal settimanale statunitense Time se l’è aggiudicato lui, il canadese Kevin Frayer.
Frayer, che lavora per l’agenzia Getty Images, è stato premiato per le foto da lui realizzate per documentare la vita in Cina e, soprattutto, il tragico esodo dei membri della minoranza dei musulmani rohingya dalla Birmania verso il Bangladesh.
Il fotografo, nato in Canada nel 1973 e noto per i suoi vari reportage effettuati in zone interessate da crisi e conflitti nel mondo (il Libano, la Striscia di Gaza, l’Afghanistan), attualmente vive a Pechino con la moglie ed il figlio. Qui ha avuto modo di cogliere da vicino l’essenza della quotidianità cinese (con particolare riferimento alle tematiche dell’energia e dell’ambiente).
Ma, come dicevamo, il premio gli è stato assegnato anche ed in special modo grazie alla profondità con cui ha saputo raccontare la tragica crisi dei musulmani rohingya, costretti a lasciare il loro Paese.
Come infatti denunciato da Amnesty International, i roghingya (comunità che raccoglie approssimativamente 1,1 milioni di fedeli nello Stato di Rakhine, nel nord della Birmania) sono vittime di atroci violazioni di diritti umani nel loro Paese, inclusi omicidi, violenze sessuali ed incendi coinvolgenti le loro abitazioni.
Da settembre scorso, quando è giunto in Bangladesh, Frayer si è trovato, suo malgrado, a testimoniare questa tristissima realtà.
Nonostante la criticità della situazione di questa minoranza musulmana in Birmania non sia affatto una novità, l’incremento delle fughe in direzione Bangladesh negli ultimi tempi è stato davvero impressionante: si parla di oltre 600.000 persone che avrebbero abbandonata il proprio Paese, a maggioranza buddhista, da fine agosto.
A riguardo, il fotografo ha riferito al Time:
Osservare centinaia di migliaia di persone essere cacciate via dalle loro case, probabilmente per sempre, è stata un’esperienza incredibilmente triste ed estenuante. Sentivo che necessitava del contributo di quanti più fotografi possibile”.
Nelle sue immagini, Frayer ha tentato di trasmettere l‘enormità delle proporzioni di quest’esodo, nonché il caos dallo stesso ingenerato, il tutto senza però, mai smettere di provare sentimenti:
Quando sei testimone di qualcosa e non hai la percezione dell’umanità o della tragedia nel tuo lavoro, le persone che guardano le tue immagini non sentono nulla. Questo è lo strumento del giornalismo fotografico e dobbiamo a queste persona il miglior lavoro che possiamo fare”.
Il Time ha, però, puntualizzato che la scelta è ricaduta su Frayer- nonostante anche altri fotografi di spessore si siano occupati di denunciare la medesima vicenda- in quanto egli è stato in grado di coniugare, nelle sue immagini, le emozioni proprie e delle persone coinvolte con la capacità di smuovere le coscienze degli spettatori: il fotografo, infatti, sostiene che il suo mestiere lo ha “messo in contatto con le basi di ciò che il giornalismo può fare. (…) Lentamente, dopo che le foto e le storie venivano fuori (…), le persone hanno iniziato a muoversi”.
Lidia Fontanella