Dopo l’esplosione a Beirut i media hanno ripreso a parlare del Libano, non sempre per esprimere cordoglio. A tornare a far discutere è il sistema della Kafala, di cui si chiede l’abolizione ormai da anni.
Kafala system: le adozioni
La kafala è un istituto di diritto islamico vòlto alla tutela dei minori orfani, abbandonati o privi di un ambiente familiare. La legge islamica non prevede l’adozione, poiché non riconosce un rapporto genitore-figlio là dove non ci sia legame di sangue. La kafala, tuttavia, permette ad un adulto o una coppia di adulti di poter prendere in affidamento un minore che non sia stato possibile affidare a cure parentali. Questo conferisce all’affidatario un potere-dovere di custodia ma non la tutela o la rappresentanza legale del minore.
Il problema della kafala, come può anche facilmente intuirsi, è che può contribuire a situazioni di sfruttamento. C’è infatti il rischio di poter facilitare il fenomeno delle spose bambine o dello sfruttamento minorile, fino a situazioni di vera e propria schiavitù.
Ma i problemi di questo sistema non si fermano qui. In alcuni paesi del Medioriente, infatti, la kafala è intrecciata alla legiferazione in campo di immigrazione. La custodia per chi si trova in stato di abbandono, infatti, viene estesa a tutti coloro che rientrano in questo status, non solo specificatamente per i minori. Questo strumento, con la facciata di una tutela, ha in realtà facilitato lo sfruttamento e la tratta dei migranti. In particolare, per quanto riguarda il Libano, di collaboratrici domestiche.
Kafala e immigrazione
La kafala prevede che il migrante, per trovare lavoro nel paese ospitante, si serva di un’agenzia preposta che lo metta in contatto con il futuro datore di lavoro, detto sponsor. Il contratto tra le due controparti –redatto in arabo, quindi non per chiunque comprensibile- viene siglato in presenza di un notaio ma costituisce, di fatto, un ricatto che va a privare il lavoratore dei suoi diritti fondamentali.
Perché si tratta di un ricatto? Perché la residenza del migrante all’interno del Paese è interamente legata al contratto di lavoro e al datore, che detiene la “proprietà” su di lui, trattenendo anche fisicamente i suoi documenti.
Non solo: quandanche il lavoratore tornasse in possesso dei suoi documenti, non potrebbe lasciare il lavoro perché questo lo renderebbe un clandestino, e dunque passibile di arresto e rimpatrio.
In caso i termini del contratto venissero rifiutati, il migrante verrebbe rimandato nel suo paese. Se invece volesse cambiare lavoro, questo non sarebbe permesso senza il consenso del datore attuale.
Il migrante, dunque, entra in un circolo di abusi da cui è difficile uscire.
La situazione in Libano
“Le testimonianze orribili contenute nel nostro rapporto dimostrano come il sistema ‘kafala’ garantisca ai datori di lavoro un controllo pressoché totale sulle vite delle persone migranti che svolgono lavori domestici. Queste si trovano isolate e in completa dipendenza dal loro datore di lavoro, alla mercé di sfruttamento e violenze e al contempo senza poter accedere a forme di rimedio” (Amnesty International)
Tra le situazioni maggiormente denunciate dalle associazioni umanitarie, c’è quella delle collaboratrici domestiche in Libano.
A documentare questa massiccia forma di sfruttamento, un report di Amnesty International “Their house is my prison”. Secondo l’associazione sono circa 250 mila le persone (maggiormente donne) impiegate in lavori domestici in Libano a rischio sfruttamento. La ricerca di Amnesty è partita dalla testimonianza di 32 persone, tra collaboratori domestici e diplomatici, che hanno voluto portare alla luce le insidie della kafala.
“È vergognoso che, da un governo all’altro, siano stati chiusi gli occhi di fronte al catalogo di violenze cui coloro che svolgono lavori domestici vanno incontro sul posto di lavoro. Sulla base del sistema ‘kafala’, le abitazioni private si trasformano in molti casi in prigioni nelle quali i lavoratori e le lavoratrici sono trattati con agghiacciante disprezzo e crudeltà” (Heba Morayef, direttrice per il Medio Oriente e l’Africa del Nord di Amnesty International.)
I lavoratori domestici immigrati non sono inseriti nel diritto libanese e tutelati da esso; questo fa sì che, l’abuso perpetrato nei loro confronti non venga riconosciuto come tale. Ai lavoratori immigrati, infatti, non spettano le cure del sistema sanitario e la paga che ricevono è molto bassa. Si tratta, a conti fatti, di vere e proprie situazioni di schiavitù.
Non avendo alcun tipo di tutela e, come giù detto, essendo la loro residenza legata al contratto di lavoro, anche se riuscissero a fuggire verrebbero perseguiti dalla legge perché considerati criminali, in quanto clandestini.
I suicidi e le violenze
La Human Rights Watch ha denunciato un alto numero di lavoratori che ha deciso di togliersi la vita a causa delle condizioni in cui sono costretti a vivere. Secondo l’agenzia libanese statale per la sicurezza, poi, ogni settimana perdono la vita almeno due collaboratrici: o per suicidio o in tentativi di fuga.
L’associazione umanitaria HRW si è poi impegnata, insieme ad altre, per portare alla luce le situazioni di abusi: violenze sessuali, privazioni di cibo e di assistenza sanitaria, trinceramenti forzati in casa.
L’opinione internazionale sembra si stia muovendo ma le risposte del governo libanese si fanno attendere.
A smuovere le coscienze anche il movimento BLM e i suoi sostenitori che hanno evidenziato come, in particolare in Libano, a subire questa sorte siano principalmente persone di colore originarie dell’Africa.
Tra le testimonianze raccolte da Human Rights Watch c’è quella di una lavoratrice del Camerun, Rose; una delle donne che, a maggio dello scorso anno, hanno deciso di scendere in strada e manifestare contro la loro condizione. Un’altra manifestazione si era già tenuta nel giugno del 2018 a Beirut, per chiedere l’abolizione della kafala.
Rose si trova ancora in Libano, nonostante il desiderio di voler tornare nel suo paese, da cui era fuggita a causa dell’estrema povertà. La donna per cui lavora si rifiuta di terminare il suo contratto di lavoro e renderle i documenti, tra cui il suo passaporto. Spesso le viene negato di uscire durante la settimana, viene sottoposta a lunghe ore di lavoro per una paga misera, ricoperta da insulti razzisti e tenuta sotto silenzio con il ricatto del passaporto.
La sua è una storia comune in un Paese che, nonostante le numero richieste, non intende abolire questo sistema schiavista.
La situazione del Libano e il caso etiope
Dopo il suo report nel 2019, Amnesty International si è rivolta direttamente al governo libanese, chiedendo l’abolizione della kafala e la rivisitazione dei contratti di lavoro e della tutela dei diritti dei migranti. Viene, inoltre, sottolineato come tale sistema non sia in linea con gli obblighi internazionali del Libano.
Nonostante una prima risposta positiva da parte del presidente del Libano, il sistema della kafala è ancora in piedi e troppe persone continuano a farne le spese.
A contribuire allo stato delle cose, c’è la situazione interna al Libano, che non è tra le migliori. Il Paese, infatti, è logorato da una pesante crisi economica, umanitaria e sanitaria, il tutto aggravato dalla pandemia corrente. Questo ha spinto molti datori di lavoro ad abbandonare, letteralmente, le lavoratrici domestiche. Un caso emblematico è quello delle 37 donne etiopi licenziate e lasciate fuori l’ambasciata del loro Paese, senza casa e senza stipendio; senza tutela.
L’Etiopia non ha la facoltà economica per poterle rimpatriare e neanche loro possono permettersi il costo del biglietto di ritorno. Al momento sono state accolte e curate dalla Caritas locale.
Queste scene, però, accadono sempre più spesso in un paese economicamente al collasso in cui, come sempre, a pagare sono le fasce più vulnerabili.
L’abolizione nel Qatar
Nel frattempo qualcosa comincia a muoversi e anche il Qatar entra a far parte di quei paesi che hanno deciso di abolire la kafala.
La notizia è del 30 agosto scorso, riportata dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro. Dopo anni di critiche per il mancato adempimento della promessa, il paese ha finalmente deciso di porre fine a questo sistema di sfruttamento e rivedere le politiche lavorative e di tutela dei migranti. È, inoltre, il primo paese nella regione mediorientale ad aver adottato un salario minimo non discriminatorio.
La legge entrerà in vigore sei mesi dopo la sua pubblicazione e imporrà ai datori di lavoro di garantire condizioni di vita dignitose ai lavoratori.
Marianna Nusca